giovedì 30 luglio 2009

L'abilità

In tempi più brutali li definivano in modo eccessivamente specifico: sordi, muti, zoppi e ciechi. Poi si passò al nome collettivo di handicappati. Seguì un termine più smorzato, disabili, sostituito da un nome incoraggiante, diversamente abili. Il più diversamente abile che mi sia capitato di conoscere era un disoccupato di un paesino viterbese, Cellere. Me lo mandò un malfidato collocatore comunale per rimpinguare un gruppo di disoccupati con i quali stavo mettendo in luce la città etrusco romana di Vulci. Il nuovo arrivato giunse in coppia con un compaesano: erano sempre fianco a fianco, parlottavano in continuazione e picconavano l'interramento in perfetta sincronia. Lui alto, secco e rosso di capelli, l'altro bassotto e moro. Per un po' tutto andò liscio, poi il piccone del rosso sfiorò un polpaccio d'un operaio che stava passando. "Ahò - gridò la mancata vittima - che sei, cecàto?". "Perché, nun lo sapevi?" rispose il rosso. Così scoprii di aver assunto un operaio cieco per ritrovare preziose e sacre vestigia dell'antichità. Che fare, licenziarlo? Preferii incaricarlo di provvedere, con il suo complice, all'approvvigionamento di acqua potabile per il cantiere. Con la botticella se la cavava benissino. Oggi si parla spesso delle pensioni ai finti ciechi, ma un finto vedente è capitato solo a me.

giovedì 23 luglio 2009

Il piattino

In cima a vico Casana, anni fa, sostava un cieco con la fisarmonica. Cantava in falsetto vecchi ritornelli e campava con le elemosine dei passanti. Un giorno mi accorsi che aveva messo sul suo strumento un cartello con una scritta a grandi caratteri: "Sono solo, non date niente a nessuno". Gli chiesi il perché di quell'avviso e mi raccontò che da un po' di giorni un altro poveraccio si metteva di nascosto al suo fianco con un piattino e intascava le offerte che la gente credeva di fare al suonatore. Era stato il rumore delle monete sul piattino a far scoprire il trucco. Le disavventure del fisarmonicista non finirono lì: qualcuno gli fece credere che con la sua voce da tenore di grazia avrebbe avuto un gran successo negli Stati Uniti. Certo, c'era il problema del visto d'ingresso, ma si poteva rimediare con un viaggio clandestino, sempre che ci fossero stati i soldi per ungere chi di dovere. Il suonatore si lasciò convincere e tirò fuori i suoi risparmi. Gli imbroglioni, dopo una lunga serie di finti preparativi dell'espatrio, una notte l'accompagnarono in porto e lo fecero scendere nella stiva di una nave in disarmo, dove l'abbandonarono. Dei guardiani lo trovarono per puro caso giorni dopo, ormai stremato. Non aveva gridato perché credeva di essere già in navigazione. Si riprese e ritornò a cantare e suonare nel vicolo. Melodie sempre più tristi. Poi morì.

giovedì 16 luglio 2009

La firma

Abbiamo letto sui giornali che Elio Letizia, padre di Noemi, ha usufruito della prescrizione per tirarsi fuori da un processo per bustarelle. Una faccenda da molti milioni di lire, secondo l'accusa. I fatti risalivano al 1993, quando il Letizia lavorava presso l'assessorato all'Annona di Napoli e si occupava del rilascio di licenze di commercio. Sarebbe una storia poco interessante, se non ricalcasse una vicenda accaduta a Napoli, nell'Ottocento, a un funzionario del regno borbonico che aveva lo stesso incarico di Letizia. Il pubblico dipendente, chiesta udienza a re Franceschiello, si era umilmente lamentato con il sovrano per la pochezza del proprio stipendio: "Dopo tutto - aveva aggiunto - ho un ruolo non secondario nell'amministrazione del Regno, io sono quello che firma le licenze di commercio". "E tu non firmare" gli consigliò il re, congedandolo. L'impiegato mangiò la foglia e mise a frutto il suggerimento. Mesi dopo, Franceschiello, mentre passava in carrozza per il centro di Napoli, vide un magnifico tiro a quattro che superava in fasto il cocchio reale: incuriosito si sporse dal finestrino e riconobbe nell'elegante passeggero l'addetto alle licenze di commercio. Allora gli gridò: "Firma, firma, o ti mando a Gaeta!" cioè in galera. Evidentemente Franceschiello considerava illecito non il furto, ma l'eccesso di refurtiva. E i Franceschielli di oggi, come la pensano?

mercoledì 8 luglio 2009

Arriva Pinuccia

Sono i giorni della "rumenta", i genovesi hanno appena pagato l'onerosa tassa sui rifiuti ed ecco che si annuncia un rimpasto della giunta cittadina, con l'arrivo di un nuovo assessore all'ambiente, Pinuccia Montanari. E' una temuta rappresentante dei Verdi e ha pensato bene di trasferire a Genova i suoi metodi (raccolta differenziata, spazzatura quasi zero), dopo aver racimolato nelle ultime elezioni a Reggio Emilia (dove ha imperato per cinque anni) un misero bottino di 70 voti di preferenza. Dicono che circolare con in mano un sacchetto di rifiuti diverrà più rischioso che andare a spasso con una retina piena di bombe a mano. Era dai lontani tempi (anni Sessanta) di Fernanda Pedemonte che l'igiene cittadina non conosceva simili tempi duri. La professoressa Fernanda era divenuta il terrore degli alimentaristi, ai quali aveva imposto peraltro regolette ovvie, come l'uso della bustina copri capelli e la separazione tra le dita che maneggiavano il prosciutto e quelle che contavano i soldi. La battaglia più originale della tutrice della salute pubblica aveva avuto come obiettivo la cordicella elastica che teneva (e tuttora tiene) compatto il pollo cucinato allo spiedo: il ragionamento era semplice, il caucciù bruciato dalla fiamma diventa cancerogeno. Non si capisce in base a quale contro-ragionamento continuiamo, da allora, a trovarci nel piatto quella gomma "flambée". Che ne dirà la signora Pinuccia?

venerdì 3 luglio 2009

Il bacio

Vedere per strada innamorati che si baciano è ormai un fatto usuale. Negli anni Cinquanta, invece, ancora non conveniva: c'era l'infrazione legale e, inoltre, le ragazze temevano di essere viste da qualcuno che le conosceva. Così ci si rifugiava nei cinema, nei portoni, magari negli ascensori. Non mancava, però, chi sfidava più apertamente leggi e convenzioni. Capitò che una coppietta ebbe l'audacia di baciarsi sulla spiaggia proprio davanti a un tizio che stava prendendo il sole: che sfortuna, era un pretore. Identificazione, denuncia, processo, condanna a un'ammenda. Il tutto fu puntualmente riferito dal cronista giudiziario del "Lavoro", Giuseppe Gino Martini, che scrisse un resoconto assolutamente neutro ma poi scese in tipografia e si mise d'accordo con il linotipista incaricato di comporre quelle righe: "Qui dove c'è la erre ci metti invece una enne, capito?". Così il giorno dopo i lettori del "Lavoro" poterono leggere: "Al termine del breve dibattimento il pretone ha condannato i due fidanzati a un'ammenda". Apriti cielo, il magistrato s'infuriò e minacciò un procedimento; ma il direttore del giornale, presentandosi con il rotolo degli originali degli articoli, potè dimostrare, carta alla mano, che Martini aveva scritto pretore e non pretone. Nessuna ingiuria, quindi, ma solo uno sfortunato incidente. Proprio come quello del bacio davanti al giudice.