venerdì 29 gennaio 2010

L'Olimpo

Leggendo il "Corriere" ho scoperto che le coppiette romane si danno appuntamento sotto il balcone di Palazzo Venezia. Proprio "quello". Non hanno torto, in pochi minuti arrivano al Campidoglio, o alla Colonna Traiana, o al Pantheon; oppure ai templi di Largo Argentina con relativi gatti. Che passeggiate! A Genova, invece, noi innamorati Anni Cinquanta dicevamo "Ci vediamo alle cinque da Oscar", intendendo le vetrine dell'orologiaio Oscar Linke in piazza De Ferrari. Di lì andavamo in uno dei dodici cinematografi di via XX Settembre e dintorni, oppure, se era giovedì, salivamo, con l'ascensore più veloce del mondo, all'"Olimpo", l'elegante caffè in vetta al Grattacielo dell'orologio. Lassù, al giovedì, gli studenti universitari ballavano gratis e se prendevano un caffè non dovevano sborsare tutte le canoniche cento lire del listino. Era un gran bel posto, l'"Olimpo", una volta ci girarono una scena d'un film. Dalla terrazza si vedeva Genova a 360 gradi, la città faceva un figurone con i forestieri. Poi vennero i guai a causa di più rigorose leggi sulla sicurezza: scale strette, ascensore piccolo e unico, nessun'altra via di fuga; i vigili del fuoco fecero pollice verso e l'"Olimpo" finì. Altri ritentarono con un numero chiuso di accessi, poi dovettero desistere. Forse i pompieri genovesi presentivano le Torri Gemelle.

sabato 23 gennaio 2010

Vecchio calcio

"Tutto il calcio minuto per minuto" ha compiuto mezzo secolo. Giuste le celebrazioni, ma non è stato sottolineato a sufficienza che la trasmissione prosperò perché si stavano diffondendo le radioline a transistor, che permettevano ai tifosi di seguire dalle gradinate i risultati degli altri incontri. Ma prima di allora, come ce la cavavamo a Genova? Finita la partita, una folta colonna di supporter si dirigeva a piedi verso il centro cittadino: prima sosta in via San Vincenzo, dove lo studio fotografico Vivenzio e Pagano esponeva già le istantanee in bianco e nero dei gol e delle principali azioni del primo tempo: quasi un miracolo tecnologico, ai nostri occhi di allora. Poi si proseguiva verso piazza De Ferrari: lì, su un terrazzo a destra del pronao del teatro Carlo Felice, era pronto un cartellone ricco di occhiaie vuote, che una mano volonterosa riempiva a poco a poco con i risultati delle altre partite di serie A. Ad ogni nuovo dato il brusio delle piazza aumentava di volume. Quanto alla classifica, bisognava farsela da soli, con l'aiuto di qualche ritaglio di giornale. Venne poi una vera rivoluzione informatica, con l'installazione, sull'alto del palazzo a sinistra del Carlo Felice, di un giornale luminoso, a lettere scorrevoli, che dava risultati e classifiche. "Sembra di essere a New York" diceva, soddisfatta, la gente.

domenica 17 gennaio 2010

Giano Bifronte

Gli artisti del passato amavano rifinire le loro opere anche nei particolari poco visibili: così chi creò la Galleria Mazzini di Genova si premurò di mettere sul coronamento delle cupole alcune teste di Giano Bifronte che si possono scorgere solamente da determinati punti del marciapiede di via Roma, lato prefettura. Una volta capitò a un noto pasticciere di salita Santa Caterina, il signor Casati, di notare uno dei Giani e di restare colpito da quella presenza, fino ad allora insospettata. Infervorato, il re dei bigné telefonò al pittore Fieschi: "Vieni qui - gli disse - ti mostro una scultura, così mi ci fai un quadro da mettere in negozio". Fieschi andò, ammirò il Giano, poi instaurò una trattativa: "Quanto mi dai se te lo dipingo?". La risposta fu seducente: "Ti regalo una torta ogni domenica, vita natural durante". Concluso l'affare, la cosa andò avanti per anni. Una domenica Fieschi m'incontra, mi racconta la faccenda del Giano e mi dice: "Vado da Casati a ritirare la solita torta, ma oggi non sto bene di stomaco. Perché non te la prendi tu?". Feci il sacrificio, ne valeva veramente la pena. Per gratitudine, portai Fieschi a casa mia e gli mostrai uno dei Giani da vicino: dal mio terrazzo si toccava quasi con mano. Ora non abito più là, ma mi capita ugualmente di rivedere la scultura. E di ripensare, com'è ovvio, alla torta di Casati.

lunedì 11 gennaio 2010

De Nicola

Solenni celebrazioni a Napoli per i cinquant'anni dalla scomparsa di Enrico De Nicola, primo Presidente della Repubblica. Venne a Genova nel 1946 e salì fra l'altro al Santuario di San Francesco da Paola, vicino a casa mia. Il servizio d'ordine era affidato ai ragazzi del circolo cattolico, che frequentavo soprattutto per partecipare ad accanite sfide calcistiche nel chiostro del convento. Dunque arriva il grande personaggio e si accosta alla ringhiera del piazzale, dal quale si gode una vista stupenda su mezza Riviera. La gente accorre a frotte, preme sempre più forte, il nostro cordone di sicurezza si restringe, siamo in difficoltà. A un certo punto, pur resistendo alla folla con i calcagni puntati a terra, mi ritrovo ad appena mezzo metro di distanza dal panciotto presidenziale. E qui comincia una sceneggiata degna del miglior De Sica padre: De Nicola gesticola, proclama "Grazie, grazie, siete tanto cari!" ma, parlando tra i denti, mi sgrida: " Che ci stai a ffà? E spingi, mannaggia a ttè!". Continua così, alternando sommesse imprecazioni a pubbliche dichiarazioni d'affetto. Finalmente arriva a toglierci d'impaccio un robusto frate laico, un calabrese stile Rino Gattuso: a suon di gomitate apre un passaggio al piccolo corteo, che riesce a infilarsi in chiesa. Io rimango stremato su una panchina a chiedermi: "Mannaggia a chi? A me?".

martedì 5 gennaio 2010

Il segno

Per trent'anni me lo sono trovato seduto su uno scalino, di fronte al portone di casa, impegnato senza tregua a dire frasi dal senso sfuggente, quasi compiaciuto dal rimbombo, sotto le volte di Galleria Mazzini, della sua voce simile a quella di Sandro Ciotti, ma ancor più cavernosa. Ieri l'ho rivisto, fotografato e intervistato sul Decimonono: pare che sia un pittore di talento, ingrandimenti dei suoi quadretti adorneranno un nuovo rifugio per i senzatetto. Sarebbe facile ma crudele scrivere che per i poveretti le disgrazie non vengono mai sole e che gli "homeless" meriterebbero almeno Renoir. Dirò invece che questa storia degli ingrandimenti mi ha fatto venire in mente il "segno precario" scoperto da un titolato pittore genovese, Plinio Mesciulam. Dunque, dice Mesciulam che basta esaminare un qualsiasi conto di trattoria, scritto a mano, per scoprire che, almeno in un punto di quella nota, la grafìa del taverniere ha raggiunto la libertà di tratto, la scioltezza e l'espressività di una vera opera d'arte. Realizzando un ingrandimento di quel particolare, il quadro è fatto. Mesciulam espose anni fa significativi esempi di "segno precario"". Io posso essere della sua idea, aggiungendo però che, sicuramente, l'oste raggiunge il colmo dell'estasi artistica quando, dopo "vino e pappardelle al sugo", scrive la cifra del totale.