mercoledì 29 settembre 2010

La regina

Vidi l'ultima regina d'Italia, Maria José, all'incirca nel 1987, in via Garibaldi, proprio davanti alla sede del Comune di Genova. La sua fisionomia era inconfondibile, anche se non aveva scorta né compagnia. In piedi, accanto a un'auto qualsiasi, vestiva modestamente e portava scarpe da tennis. L'autista si appoggiava a un parafango, in attesa di ordini. Mi bloccai di colpo e indicai la regina al mio compagno di passeggiata, Arnaldo Ponte. Forse la dignitosa signora avrebbe gradito un baciamano, ma noi, intimiditi, optammo, da rispettosa distanza, per un mezzo inchino che la regina ricambiò con un cenno del capo. Era emozionante vederla di persona, dopo aver trovato tante volte il suo volto sui rotocalchi tipo "Oggi", che vivevano del "gossip" di casa reale. Da topo di biblioteca, avevo in mente anche altre immagini, ben più vecchie, di Maria José a Genova; una soprattutto, scattata quando, vestita da crocerossina, era venuta a far visita ai feriti d'un bombardamento. Allora aveva intorno tutte le autorità cittadine, ora la gente che passava in via Garibaldi non la riconosceva e nessuno si preoccupava di farle gli onori di casa. Scoprimmo poi, dai giornali, che l'illustre ospite si era recata a Palazzo Tursi per salutare il sindaco. Il primo cittadino, però, se l'era data a gambe, lasciando al suo vice il compito di cavarsi d'impaccio.

giovedì 23 settembre 2010

Marcinkus

Raccontavo l'altro giorno al mio amico Mimmo un singolare incontro con Marcinkus, il chiacchierato monsignore che fu responsabile dello IOR, l'istituto bancario vaticano. Stamani apro il giornale e vedo che lo IOR, già inquisito anni fa, è di nuovo nella bufera. Quindi la mia storiella ritorna d'attualità e la ri-racconto. Capitai nel 1987 a Roma per vedere una mostra di affreschi antichi a due passi da San Pietro. Mi fermai in un bar lì vicino e mi trovai, al banco, accanto a due prelati. A un certo punto, uno dei due trasse dall'abito talare una matita a scatto, la usò per un appunto e la rimise in tasca; sbagliò tuttavia mira e la matita cadde senza far rumore sul pavimento cosparso di segatura. L'adocchiai e vidi che si trattava di una di quelle matite laccate di solito esposte nelle cartolerie di lusso. Cose che costano 'na cifra, come dicono a Roma. Fui tentato di attendere l'uscita dei prelati per far fuori il prezioso oggetto. Poi mi dissi: "Vergognati, non vorrai rubare a un ministro di Dio, proprio qui in Vaticano...". Così raccolsi la matita e dissi al prelato: "Scusi, le è caduta questa". Il reverendo mi ringraziò. Solo a quel punto lo guardai in viso e riconobbi la ben nota fisionomia di monsignor Marcinkus. Diavolo, avevo perduto l'occasione di ricambiare minimamente una delle tante fregature che lui aveva inflitto con la sua banca.

venerdì 17 settembre 2010

Megli

Megli è una frazioncina di Recco, a mezza collina, con vista sul mare; una frazione così piccola che gli abitanti non sono mai stati censiti. Case modeste, tanti fiori, vegetazione curatissima. Vi si rifugiò per anni il più noto pittore genovese, Oscar Saccorotti, appassionato cultore della natura. A Megli abitava anche un conosciutissimo oncologo dell'ospedale Galliera, Luigi Gallo, ormai pensionato. Io lo conobbi una trentina d'anni fa, quando aprì il primo ambulatorio per la cura chimica del cancro, fino ad allora affrontato soprattutto con la radiologia. All'inizio, l'ambulatorio era un posto tragico, una specie di scantinato dove, lungo le pareti, si allineavano persone in muta attesa, due volte al mese, di una siringa di liquidi ignoti, accompagnata da una parola d'incoraggiamento. Gallo lavorava per molte ore al giorno in quell'ambiente da incubo senza dare segni di cedimento. Quando raggiunse l'età delle pensione, il ritiro di Megli dovette sembrargli l'ingresso in un Eden offerto in premio alla sua vita meritoria. L'altro giorno pioveva forte, una grondaia della casa si era intasata e il dottor Gallo è andato a ripulirla, ma è caduto dal tetto ed è morto. I genovesi gli hanno dato l'addio con una pagina di necrologi. Che destino, vivere per tanto tempo in un inferno per poi morire dopo aver messo piede in un piccolo paradiso terrestre.

sabato 11 settembre 2010

Passerelle

La trasmissione Tv "Da-da-da" ha riportato in vita la passerella delle vecchie riviste musicali; non quella, sciamannata, di Alberto Sordi e di "Andò vai se la banana nun ce l'hai...", ma quella vera, opulenta, signorile del grande teatro d'intrattenimento leggero. Quella di Wanda Osiris, tanto per intenderci. La Wanda era la delizia della claque dell'Augustus, di cui facevo parte: si fermava nel nostro angolo di passerella e ci salutava uno per uno, dandoci la mano; le piaceva recitare la parte della soubrette assediata dagli spettatori. Una volta, però, ci toccò il rovescio delle medaglia. In una rivista c'era una ballerina, Kiki Urbani, che veniva dalla danza classica; si esibiva da solista seguendo la musica di una canzone della quale ricordo solamente il primo verso: "Non so perché ma quando il cielo è rosso...". Era una ballerina piccola e robusta e la sua interpretazione risultava molto "carnale". La salutammo con entusiasmo quando, nel gran finale, le toccò la sfilata in passerella. Date le sue origini artistiche, per lei era un'assoluta novità. Sta di fatto che, invece di ringraziare, come le sue colleghe, con sorrisi e inchini, interruppe di colpo la ritmica camminata e strofinando pollici ed indici ci chiese ad alta voce: "Ma siete pagati?". Peccato, accadde proprio quella volta che eravamo assolutamente sinceri e anche un po' arrapati.

domenica 5 settembre 2010

Sabelli

Una volta il "Decimonono", giornale risparmioso, decise di fare una follia e assunse un inviato di lusso, Claudio Sabelli Fioretti. Il "big" arrivò e s'infilò in ufficio senza venire in redazione a presentarsi. Almeno, con me non lo fece. Ci rimasi male, ma il caso mi offrì una rivincita. Circa un mese dopo mi passarono una telefonata: "Sono la commessa di un negozio di via San Vincenzo, c'è qui un cliente che vorrebbe pagare con un assegno. Si chiama Sabelli, dice di essere un giornalista del "Secolo". Me lo può confermare?". Sogghignando risposi: "Guardi, io sono al Decimonono da vent'anni, ma questo Sabelli non lo conosco. Se fossi in lei non mi fiderei. Comunque attenda che m'informo". Posai il microfono sul tavolo e aspettai un minuto, immaginando lo sconcerto della commessa e l'imbarazzo crescente del collega. Poi passai la telefonata al capo redattore che schizzò in piedi: "Come? Ma cosa dice! Certo che lo conosciamo, è una persona affidabilissima!". Gustata la vendetta, incassai impavido gli epiteti irriferibili del capo. Mi pentii dello scherzo solo molti anni dopo, quando scoprii, guardando un servizio in Tv, che Sabelli era nato nella mia provincia di elezione, Viterbo, e amava moltissimo Vulci, la città etrusca che avevo rimesso in luce nei miei anni giovanili dedicati all'archeologia. Quasi un fratello sconosciuto, insomma.