mercoledì 29 dicembre 2010

Fermo posta

Dieci giorni fa ero a un funerale in una chiesa di via Bobbio e ho notato che il parroco aveva allestito un albero di Natale a lato dell'altare. Sono rimasto sorpreso, ma non troppo: proprio il giorno prima, infatti, un mio conoscente, accanitamente laico, mi aveva confidato di preparare il presepe domestico. Evidentemente c'è stato uno scambio di simboli. Il funerale dell'altro giorno era d'un amico di sessant'anni fa, Franco, al quale dovevo quell'atto di presenza: mi aveva aiutato in un'epoca in cui i messaggini telefonici erano di là da venire e gli innamorati rischiavano di perdere i contatti. Dunque, io avevo una ragazza che d'estate se ne stava in campagna ed era sorvegliata da un'arcigna zia: le davo mie notizie inviandole banali lettere con una falsa firma femminile e aggiungendo nei margini bianchi le mie promesse di amore eterno scritte con il succo di limone. La ragazza rendeva poi visibili quelle frasi con il calore d'un insospettabile ferro da stiro. Per la risposta ci voleva un altro inghippo, perché la cassetta della posta era sotto controllo di mia madre, contrarissima al flirt. E qui entrava in azione Franco che, essendo già maggiorenne, poteva usufruire del fermo posta: con pazienza faceva l'immancabile coda e mi recapitava il sospirato plico. Per questo sono andato a ringraziarlo, anche sessant'anni dopo.

giovedì 23 dicembre 2010

Cornamuse

Qualcosa di natalizio ci vuole e anche qualcosa in dialetto, visto che gli spot per i 150 anni dell'Unità d'Italia hanno una certa aria di superiorità rispetto agli idiomi popolari. Nel 1932 fu pubblicato a Genova un volume, intitolato "Cetre e cornamuse", che raccoglieva tante poesie inedite, in italiano e in dialetto, scritte per le feste di Natale: quasi tutti componimenti che, riletti oggi, non reggono alla verifica del tempo. Si salvano solamente, a mio parere, due poesie di Edoardo Firpo, certamente il migliore tra gli scrittori dialettali genovesi. Eccone un brano: "O l'è un figgieu piccin o Bambinetto/ comme se vedde sempre i ti geuxiu/ coi euggi dosci e ciaei/ che pan due gosse cheite da un rammetto./Basta un pittin che o pie/ perché a Madonna subito a l'ammie;/ se poi o fa o sappin/ a-o ballezza, a ghe canta un pittinin/ e le o ghe rie./ L'è o cianze di figgieu comme a rosà/ che basta un po' de so e a l'è sciugà". Traduco pedestremente: "Il Bambinetto è piccolo piccolo, come si vede sempre nei santini, con gli occhi dolci e chiari che sembrano due gocce cadute da un rametto. Basta che faccia un piccolo verso che la Madonna subito lo scruta, se poi fa il broncio lo fa saltare e canticchia; e lui ride. Il pianto dei bimbi è come la rugiada, basta un po' di sole e si asciuga". Grande Firpo, come sempre.

venerdì 17 dicembre 2010

Quel nome

Ritornando a Monicelli e al suo film sul Medioevo ambientato nella Maremma laziale, occorre aggiungere che il regista azzeccò in pieno anche il "battesimo" del protagonista: "Lo meo nome est Brancaleone da Norcia!" declamava Gassman in latino maccheronico; e mai denominazione poté riempire di più la bocca d'uno scalcinato cavaliere. Era come il "laonde" caro ai bolognesi. Di dove fosse venuto quel nome non si sa, ma io ho un' idea in proposito. Negli anni Sessanta, quando fu progettato e girato il film, operava tra Vulci e Tarquinia un tal geometra Franco Brancaleoni, milanese, intento a sperimentare, per conto della fondazione Lerici, nuovi metodi di ricerca archeologica. L'attrezzatissimo tecnico misurava la "resistività del terreno", lanciando onde elettriche lungo una fila di picchetti piantati nel suolo: le anomalie nei grafici ricavati indicavano muri sepolti. Altro strumento di Brancaleoni era un periscopio rovesciato, che s'infilava nei fori praticati da una trivella e permetteva di esplorare le tombe etrusche senza scavarle. A Tarquinia ne furono controllate a migliaia e scoperte parecchie di quelle dipinte. Sul posto i curiosi non mancavano mai e penso che anche la "troupe" del film fosse della partita. Insomma, forse Brancaleone, in origine, era un geometra-archeologo meneghino.

sabato 11 dicembre 2010

Croce Rossa

Domenica scorsa "Report" di Milena Gabanelli ha "sparato" sulla Croce Rossa presentandola come un carrozzone dalle attività poco limpide. Non so se darle ragione o torto, le mie informazioni sul tema risalgono all'inizio del secolo scorso, quando mio nonno paterno, Filippo, capitano revisore della CRI, passò i guai suoi per far fronte agli impegni assistenziali dovuti alla guerra '15-'18. In quel periodo il capitano Filippo doveva amministrare l'ospedale militare di Tortona senza tralasciare però i suoi compiti di professore di matematica e scienze in un istituto tecnico. Il tutto si risolveva in affannose corse tra scuola e ospedale. Per lui non c'era comprensione: il giornale della Curia trovava ogni pretesto per criticare la sua gestione della CRI, il preside dell'istituto l'attendeva sul portone con l'orologio in mano e gli faceva rapporto a ogni ritardo. Se la cavò a stento finché durò la guerra, poi il ritorno della pace cancellò ogni remora, anche se l'ospedale continuava a ospitare feriti. Così il ritardatario professor Filippo fu trasferito per punizione a Bobbio. Ripeto, non so se la Gabanelli abbia torto o ragione, posso solamente dire, per esperienza familiare, che l'usanza di "sparare" sulla Croce Rossa ha radici antiche, almeno quanto le spalline di mio nonno, dorate e con la croce a smalto, che conservo religiosamente.

domenica 5 dicembre 2010

Brancaleone

"L'ultimo ciak di Monicelli": è uno dei titoli che ho visto, la sera delle tragedia, nella rassegna stampa del Tg3. Ho pensato istintivamente al Perozzi, il cinico giornalista di "Amici miei" interpretato da Philippe Noiret. Lui l'avrebbe fatto, quel titolo, proprio per evocare lo schianto di un corpo sul selciato. Anzi, ci avrebbe aggiunto una esse ("sciak") e Monicelli se ne sarebbe rallegrato, da quel cultore dell'umor perfido che era. Grande regista, Monicelli, autore di film che nascevano da una meticolosa preparazione. "L'armata Brancaleone" è del 1966, ma io posso testimoniare che già nel '61 la squinternata avventura era in cantiere. Una mattina di quell'anno, uscendo dal portone del castello di Vulci, dove avevo il mio covo d'archeologo, mi ero quasi scontrato con un uomo, ricoperto da una corazza, che gesticolava con una lancia davanti a un tizio munito di macchina fotografica. Chiesti chiarimenti. i due mi dissero che stavano facendo prove di scena in vista di un film sul Medioevo. Spiegarono che il castello, nerastro e sbrecciato, era uno sfondo ideale; il vicino ponte romano, poi, una meraviglia. Cinque anni dopo, ritornato a Genova, andai a vedere "L'armata Brancaleone" e ritrovai sullo schermo ponte e castello. Riconobbi anche il figurante di allora, la sua mandibola aveva una lunghezza inconfondibile.