venerdì 30 dicembre 2011

Cartoline

Chi desidera rivedere i luoghi importanti della propria vita senza muoversi da casa può farlo collegandosi a ebay e chiedendo "Cartoline di...". La sfilata d'immagini è sempre abbondante e può riservare anche sorprese: magari una propria cartolina, finita chissà come nel commercio on-line. Gustata l'emozione d'un rinnovato incontro con una piazza o una stazione ferroviaria, si finisce per dare un'occhiata ai prezzi delle immagini offerte. Qui si scopre che la definizione "animata" fa salire vertiginosamente i costi. "Animata" significa che in quella cartolina non c'è solamente il monumento tale o il teatro talaltro, ma è fissata anche l'immagine di gente che passa, che sosta, che sfila su auto ormai d'epoca o su carrozze a cavalli. Evidentemente l'"animazione" testimonia un attimo specifico dell'esistenza immutabile del monumento o del teatro e fa lievitare i prezzi. E' un po' una rivincita di noi, esseri mortali, sulla teorica immortalità di ciò che è inanimato: "Voi - sembriamo dire alle "cose"- potreste, per vostra natura, durare secoli e secoli, all'infinito, ma chi vi dà senso e valore siamo noi, vite in transito non soltanto viario". E' un tema che avrebbe potuto intrigare Giorgio Morandi, il celebre pittore delle bottiglie impolverate, ma i suoi quadri non sono mai "animati". Non c'è neppure una mosca.

sabato 24 dicembre 2011

Algoritmi

Da quando trasmettono il telefilm "Numbers", tratto gli algoritmi come parenti stretti, pur non avendo la minima idea di che cosa siano. Ho quindi appreso senza meraviglia, dal "Corriere", che un certo Rory McCann è riuscito, con un algoritmo, a risolvere il cosiddetto "rompicapo di Joyce" eternato in una pagina dell'"Ulisse". Il protagonista del romanzo, Leopold Blum, si chiedeva se fosse possibile attraversare Dublino senza imbattersi in un "pub": ebbene, l'algoritmo, opportunamente nutrito di dati, ha impiegato un solo quarto d'ora per trovare il percorso adatto a risolvere il rompicapo. La scienza fa miracoli; tuttavia, se è lecito passare dalla nobile prosa dell'"Ulisse" alla più modesta delle cronache del passato, sarà il caso di rivelare che, a Genova, un rompicapo simile a quello di Joyce era stato risolto fin dall'inizio del secolo scorso, senza necessità di ricorrere agli algoritmi: bighelloni e sfaccendati avevano infatti individuato un itinerario che permetteva di attraversare la città senza imbattersi in osterie: quel tragitto si chiamava "il giro dei misci" e dava modo, a chi non aveva un centesimo in tasca, di passeggiare sottraendosi a inutili tentazioni e amari rimpianti. Quel "giro" oggi non è più d'attualità: non perché siamo diventati meno poveri, ma perché a Genova sono sparite le osterie.

domenica 18 dicembre 2011

Miroslao

Il primo clandestino che ho conosciuto si chiamava Miroslao, originario di Tolmino, un paese italiano passato alla Jugoslavia nel '45. Miro era clandestino nel senso che poteva vivere ma non lavorare in Italia: dichiarato apolide (cioè senza patria) doveva campare esclusivamente con il misero sussidio erogato da un ente internazionale. Naturalmente si dava da fare lo stesso, in nero e sotto falso nome. Così ci conoscemmo in una colonia estiva, io assistente dei ragazzi, lui addetto alle pulizie. Lo reincontrai trent'anni dopo, ormai vecchio e mal ridotto: mi raccontò che viveva della carità dei vicini di casa, in un tugurio del centro storico. "E il sussidio?". "Sparito!". Era successo questo: dopo decenni di vita da apolide, Miro, convocato in questura, si era sentito chiedere se avesse prestato servizio nel regio esercito. Alla risposta affermativa, il funzionario aveva esclamato: "Ma allora lei ha diritto alla cittadinanza italiana, facciamo subito la pratica!". Il riconoscimento, arrivato rapidamente, aveva avuto il solo effetto di provocare la revoca del sussidio dovuto agli apolidi. Ed ecco il resto della storia di Miro: ricoverato per gli stenti, il mio amico subì un avveniristico intervento chirurgico di sostituzione aortica. Sospettai che l'avessero usato come cavia umana. Sopravvisse da invalido, ma non per molto.

lunedì 12 dicembre 2011

Vilipendio

Nel 1965 il presidente Saragat andò in visita in Argentina. In prima edizione pubblicammo la foto di un capo tribù della Patagonia, poi arrivò una telefoto del Presidente che aveva accanto (nientemeno) l'editore del Decimonono Sandrino Perrone. Il cambio d'immagine era d'obbligo: il fotoincisore Ceriale preparò i cliché da consegnare in rotativa e la tipografia mise in pagina la nuova didascalia. Qualcosa non funzionò: sta di fatto che la mattina dopo i genovesi trovarono sul Decimonono la vecchia foto e la nuova didascalia; in sostanza, un "Saragat" scuro di pelle e con le penne di gallina in testa. In Procura si allarmarono, il procuratore capo Grisolia chiamò un brigadiere e gli ordinò: "Vada al Secolo e porti qui il più alto in grado". Avevano poco da scegliere, a quell'ora al giornale c'ero solamente io che facevo il segretario di redazione. Grisolia mi accolse con uno sguardo minaccioso, poi a poco a poco si calmò e finì per ridere quando gli raccontai che l'incaricato di cambiare i cliché era un operaio sordomuto dal quale era difficile farsi capire. Dunque, un involontario errore, al quale stavamo rimediando ritirando dalle edicole le copie errate. "Bene, bene - concluse Grisolia - però facciamo un verbalino. Sa, anch'io devo coprirmi...!". Così finii schedato per sospetto vilipendio di Saragat.

martedì 6 dicembre 2011

Aviatori

Ho già raccontato che, da ragazzo, ero tifoso del grande Torino, quello che perì nella sciagura di Superga. Nel settembre 1949 andai a a visitare il luogo della tragedia, avvenuta quattro mesi prima. C'era ancora un gran buco nel basamento della basilica, nel punto in cui l'aereo si era schiantato. Mi accompagnava mio cugino Aurelio Pavesi; dopo il pellegrinaggio, mi portò in auto all'aeroporto di Caselle, dove stava per partire un piccolo monomotore, un "Bonanza", diretto negli Usa con un volo da record. Era da poco riuscita l'impresa di Bonzi e Lualdi con l'"Angelo dei bimbi", cosicché il nuovo tentativo non sembrava folle, nonostante la stagione avversa. Quando arrivammo, i piloti, due biellesi che si chiamavano Brondello e Barioglio, stavano conversando amabilmente con la piccola folla che li circondava. Uno di loro indossava pantaloni chiari e scarpe bianche, come se si accingesse a giocare a tennis. Poco dopo l'aereo decollò. Seguii il resto dell'avventura attraverso i giornali: un atterraggio di fortuna alle Azzorre, la decisione di giocare il tutto per tutto, il grande balzo sull'Atlantico, un messaggio, "Hello America!", lanciato dal Bonanza in vista di New York. Poi un tragico silenzio. Ogni tanto ripenso a quelle scarpe bianche, forse erano un modo di gettare il cuore oltre l'ostacolo.

mercoledì 30 novembre 2011

Fotografi

Anche ai miei tempi i fotografi che lavoravano con i giornali sembravano pirati moderni: gente ossessionata dalla voglia di fare lo "scoop", di scattare foto a costo di farsi insultare, percuotere e anche arrestare. Quando fu assassinato Guido Rossa, uno di loro fece un chilometro nelle fogne per raggiungere il punto dell'attentato a dispetto dei posti di blocco. Poche le eccezioni: il mio caro amico Dario Moretti, di recente scomparso, coltivava uno spirito francescano; andava sul teatro di una tragedia e magari si metteva a consolare i superstiti. Poi ritornava con le lacrime agli occhi a raccontarci tutto e solo a quel punto si accorgeva di essersi dimenticato di fare le fotografie. Di tutt'altra pasta un vero artista dell'obiettivo, Nàzzaro. faccia di pietra, un incursore da film: con lui ebbi un incontro ravvicinato ai tempi in cui le BR sparavano ai giornalisti. Arrivò in redazione, si mise comodo su una sedia, davanti alla mia scrivania, poi cominciò a scattarmi foto. Al primo accenno di protesta mi disse: "Lavora tranquillo, non badare a me, se no mi guardi in macchina...". Replicai: "Ma che stai combinando, mi prepari la lapide?". Mi fissò gelidamente: "Non vorrai mica finire sui giornali con la fotografia della carta d'identità!". Per lui non ero più un amico, ero un'istantanea da tenere pronta.

giovedì 24 novembre 2011

La cultura

Al tempo del ginnasio. cominciai a frequentare il cinema Cristallo di piazza della Zecca: aveva prezzi abbordabili, film di seconda visione, poltroncine senza parassiti. Novità assoluta, la pubblicità, rappresentata da un intrattenitore che, nell'intervallo del film, metteva in palio tra gli spettatori pacchi di pasta e biglietti omaggio, destinati a chi sapeva rispondere a domande di cultura generale. Era una versione molto casalinga del "Botta e risposta" che aveva moltiplicato gli ascolti alla radio e portato alle stelle la popolarità del conduttore Silvio Gigli. In quei tempi ancora ingenui, si rideva a crepapelle se il presentatore inventava il "color singhiozzo di pesce" per descrivere la cravatta di un concorrente. Al "Cristallo", mentre le domande fioccavano, mi resi conto di essere in grado di rispondere a quasi tutte; così imparai ad alzare la mano fulmineamente per fare bottino. Ogni pomeriggio, quindi, rientravo a casa con i miei bravi pacchi di pasta e il biglietto per il giorno dopo. Il successo mi diede da pensare: se, ragionai, la cultura mi consentiva di sfamarmi e di divertirmi gratis, tutto ciò avrebbe potuto far parte di una scelta di vita. Per la verità, avevo già in mente di iscrivermi alla facoltà di Lettere, posso però dire che quei pacchi di pasta ebbero il potere di rassicurarmi sul mio futuro.

venerdì 18 novembre 2011

Lucchetti

Ora che il Cavaliere si è dimesso, sono curioso di vedere se finirà l'annosa polemica tra i fan dell’ex premier e coloro che Silvio non lo possono proprio vedere. Io propongo che vadano insieme ad Arcore, portando ognuno un lucchetto: chi è fan l'appenderà all’inferriata con il cartello “Succursale di Ponte Milvio / monumento all’amore per Silvio”, chi è ancora accanito detrattore userà il suo lucchetto per bloccare il cancello, con lo striscione “Resta dentro fin che non giunga/ la sentenza sul bunga-bunga”. Aspettando il viaggio, bipartisan ma a lucchetti rigorosamente separati, possiamo occuparci un po’ del nuovo premier. Ha un nome demodé che i fatti hanno riportato alla ribalta: Mario Monti ha preso in mano la nazione, Mario Balotelli la nazionale di calcio, Mario Draghi la banca internazionale. Scommetto che troveremo molti Mario nell’elenco dei nuovi nati pubblicato dal Decimonono (adesso, per le bimbe, va di moda chiamarsi Melania, come la vittima di un fosco delitto). E poi, avanti con scritte e poesie: "Dopo il Mariotto dei referendum / ecco don Mario, il reverendum". "Cominciò con Veronica Lario / e adesso finisce con Mario". "Mario Monti, stringendo il discorso,/ ha lo stesso nome di Corso,/ ma non sa tirare in porta/ le punizioni a foglia morta".

sabato 12 novembre 2011

Buoni del Tesoro

Si fa un gran parlare delle peripezie dei Buoni del Tesoro italiani, ormai sappiamo tutto sullo "spread" e pranziamo con un occhio ai grafici dei telegiornali. Lo faccio anch'io, chissà poi perché, dal momento che non ho investimenti del genere. So però che una volta era tutto più semplice: i Buoni si compravano allo sportello bancario, erano stampati e al portatore. Ogni cedolina raffigurata su quei fogli filigranati rappresentava l'interesse semestrale: alla scadenza, bastava ritagliarla e incassarla in banca. La durata dei buoni era novennale, all'interesse annuo del cinque per cento. In più c'erano le estrazioni a premio a ingolosire i risparmiatori: si sperava sempre che al proprio numero di serie toccasse un milioncino. Non si pagavano commissioni bancarie e diritti di custodia, gli interessi erano esentasse. Tutto questo paradiso, per noi e per lo Stato, finì all'epoca di Tangentopoli, quando gli inquirenti si accorsero che, dato l'alto valore nominale di alcuni Buoni de Tesoro, in una valigetta si potevano trasportare comodamente alcuni miliardi di lire. Così i Buoni cartacei, sospettati di essere l'ideale strumento per il contrabbando di valuta e soprattutto per il pagamento di tangenti, furono soppressi. Li sostituirono i Buoni virtuali, registrati, tassati e senza premi. E con poco appeal.

domenica 6 novembre 2011

L'alluvione

A Genova è ritornata l'alluvione quarantennale, con un solo anno di ritardo sulla precedente del 1970. Mio figlio Vittorio e mio nipote Edoardo hanno messo in salvo i cento automezzi del loro salone portandoli sul tetto di un capannone, al riparo dalle furie del Bisagno. Hanno lottato contro il tempo, bagnati fradici e con la morte per annegamento in agguato a pochi metri. A Genova, per lavorare, si deve rischiare anche la pelle. Quando c'è stato il quarantesimo anniversario della precedente alluvione, ho scritto un intero inserto del "Secolo XIX" per raccontare che cosa era accaduto allora e perché era successo. Ho ricordato che gli esperti avevano individuato sotto il ponte della ferrovia il punto critico in cui il Bisagno s'ingolfava e diventava una diga mortale. Per tutta risposta i soloni del Comune hanno fatto lavori di allargamento del letto a valle di quel tappo, spendendo centinaia di milioni: hanno messo il rossetto a un morto. Stavolta l'acqua non è venuta giù dalle colline e non ha gonfiato il Bisagno attraverso gli affluenti: è caduta in centro città ma il Bisagno non l'ha accolta, forse perché era troppa, forse perché le condotte di scarico erano ostruite. A cause differenti, effetti uguali: gente affogata, automezzi e negozi distrutti. A Bangkok succede lo stesso: potremmo proporre un gemellaggio.

lunedì 31 ottobre 2011

Quintiliano

Il nostro cervello ha delle ampie pieghe in cui si nascondono, magari per decenni, ricordi mai più rivangati. Basta però un piccola scintilla per farli scaturire dal buio, così come facevano i "babau" quando scattava il coperchio della scatoletta di legno. Il mio "babau" è uscito dall'oblio l'altro giorno, mentre leggevo il "Corriere della sera": un esperto di problemi scolastici affermava che il modo d'insegnare nel modo giusto e con i giusti toni era già noto, nel primo secolo dopo Cristo, attraverso la descrizione che ne aveva fatto Marco Fabio Quintiliano, autore dell'"Institutio oratoria". Sono rimasto sbalordito, sia perché, pur consultando quasi quotidianamente i testi latini, non m'imbattevo in Quintiliano da almeno mezzo secolo, sia in quanto, nella mia gioventù, avevo avuto una frequentazione quotidiana, per la durata di cinque anni, con il medesimo autore. Nulla di libresco, anzi, tutt'altro: entrando e uscendo dal liceo Colombo leggevo ogni giorno, sul muro di fronte al portone, una scritta a grandi lettere rosse: "Abbasso Quintiliano fottuto e porco". Per cinque anni mi ero chiesto la ragione di tanta ostilità: un compito in classe sbagliato? Un'interrogazione andata male? Cerco ancor oggi la risposta. Intanto però ho imparato dal "Corriere" che quegli insulti erano immeritati.

martedì 25 ottobre 2011

Ghiglione

Lettera di protesta al Decimonono perché lo scrittore Maurizio Maggiani, nel suo articolo domenicale, ha usato la parola "culo". L'accusato ha risposto citando a propria difesa Dante Alighieri e affermando che il sinonimo "sedere" è meno genuino. La polemica sulla parolaccia mi ha fatto tornare in mente un poeta genovese, Nicola Ghiglione, con il quale avevo a che fare negli anni Sessanta: lui portava al giornale arruffate recensioni di libri e io le raddrizzavo un po' per renderle pubblicabili e garantire un reddito all'autore. Ghiglione, per la verità, non si preoccupava molto di guadagnare con gli articoli: di lui si diceva (e forse era vero) che avesse un fratello ricco e generoso, nonché una moglie con trattoria. Nel mondo letterario lo svagato Nicola vantava già una piccola fama come autore di un libretto di "Canti civili", lodato per la qualità poetica e anche per l'impegno politico. Poi un suo verso, citato fino alla noia dai detrattori, gli procurò, insieme a un po' di derisione, una più vasta popolarità. Il poeta, notando alcuni operai che stavano accosciati sul greto del Bisagno per deporre "lo soverchio del ventre" (mia citazione trecentesca). aveva così verseggiato: "I culi degli uomini sono canuti e menzogneri". Per Nicola Ghiglione fu notorietà assicurata, almeno a Genova.

mercoledì 19 ottobre 2011

Follie

Mi è arrivata una raccomandata dell'Agenzia del territorio, ossia del Catasto; sulla busta è stampato, a uso dell'incaricato del recapito, l'elenco delle persone alle quali, in assenza del destinatario, il plico può essere lasciato: parenti, portinaio, coinquilini e via dicendo "purché il consegnatario non sia manifestamente affetto da malattia mentale". Evidentemente l'Agenzia mette in conto che, ad aprire la porta, possa essere un tizio con lo scolapasta in testa e una spada di legno in pugno. E' un bel modo di sdrammatizzare gli effetti della legge Basaglia, limitando le precauzioni al divieto di consegna delle raccomandate. Anche questa prescrizione può entrare a buon diritto nell'immensa letteratura sui folli, fatta al novanta per cento da storie umoristiche, in gran parte inventate, ma non tutte. Ne ricordo una vera del paese di mia madre: un illustre psichiatra di Fiorenzuola d'Arda invitò il gran gerarca Italo Balbo, suo amico, a visitare il manicomio che dirigeva (in Emilia l'ospedale psichiatrico è chiamato "I Pavlòt", i Paolotti). Durante il giro nei reparti il medico si rivolse a un degente: "Com vala?" (Come va?). L'ammalato rispose: "Malet ti e chi t'ha dat la laurea!" (Accidenti a te e a chi ti ha dato la laurea!). E Balbo, prontissimo: "Mòllal ch'l'è guarì!" (Lascialo andare che è guarito!).

giovedì 13 ottobre 2011

L'Europa

Domenica sera, davanti alla Tv, mi sono divertito come non mi capitava da tempo. Sul teleschermo c'era Riccardo Jacona con la sua trasmissione "Presa Diretta". Jacona è un tipo un po' mesto, talvolta sembra in procinto di fare le condoglianze a qualcuno; domenica, invece, anche a lui scappavano sorrisi mentre spulciava le statistiche nazionali sul patrimonio zootecnico e sulla produzione di latte. Dunque, di regola la Comunità europea concede un contributo per ogni capo di bestiame registrato e infligge multe per il latte prodotto in eccesso. Dalle comunicazioni ufficiali italiane inviate all'Europa, risulta che un'anziana allevatrice abitante sulle Alpi è proprietaria di trentamila mucche, ognuna delle quali produce un litro di latte all'anno. Quindi le toccano trentamila contributi comunitari e nessuna multa. Intervistata, la mandriana ha detto che le sue mucche sono in realtà cinque e che la sua stalla non potrebbe ospitarne di più; ha inoltre escluso d'aver mai visto un euro dei contributi versati dalla Comunità europea. Ce ne sarebbe stato abbastanza per ridere un bel po'; ma l'ilarità è arrivata al massimo quando si è appreso che la Comunità europea ha accettato quei dati statistici senza fare una piega. Sono gli stessi signori che ci scrivono lettere ultimative sulle misure economiche da prendere.

venerdì 7 ottobre 2011

L'italiano

C'è un certo ritorno d'attenzione per la lingua italiana, dopo le sbracature del romanesco imposto dalla Tv. A Genova ha fatto scandalo una pubblicità che consiglia: "Non lo sai? Sallo!". "Diamine - hanno osservato in molti - non si dice sallo, si dice sàppilo". E' vero, ma c'è un'attenuante: credo che l'errore sia nato dall'analogia con "Non lo fai? Fallo!". Perché poi sia giusto dire "sàppilo" e non si debba invece dire "fàccilo" è un mistero. Il verbo "sapere" si presta a giochini linguistici: nel Settecento, un bello spirito inventò una falsa tragedia alfieriana e la fece rappresentare. Il dialogo più noto diceva così: "Sailo?" "Sollo!" "Sallo?" "Sassi in Atene e in tutta Roma sassi!". Non finì a sassate, ci furono anche applausi. Le sorprese linguistiche non sono infrequenti: parecchio tempo fa restai allibito davanti all'espressione "la qualunque"che mi era ignota; giorni fa ho scoperto con altrettanto sconcerto, sul "Corriere della sera", la notizia che un capocorrente di un partito aveva "attovagliato" una dozzina di parlamentari. Si capiva che li aveva invitati a pranzo, ma quel verbo, da dove veniva? Una rapida indagine mi ha rivelato la fonte dell'espressione mai sentita: Dagospia, al secolo Roberto D'Agostino, che ha recuperato per il mondo gastronomico una bella immagine di Papini dedicata all'aspetto della neve.

sabato 1 ottobre 2011

L'esame

A una certa età la prostata si fa sentire, eccome: addirittura ti condiziona la vita, dandoti un'autonomia di poche ore. C'è poi il tarlo che quei disturbetti nascondano qualcosa di ben più grave. Allora la dottoressa di famiglia chiede: "Da quanto tempo non fa il PSA?". Troppo, come al solito. Finisco in coda all'ospedale per un esame del sangue che mi chiarirà questi e altri dubbi. L'addetta alla ricezione incassa l'importo dei ticket e poi mi dice: "Vedo che tra le analisi richieste c'è il PSA. Tenga presente che, se il risultato di questo esame sarà alto, lei dovrà pagare un ticket supplementare al momento del ritiro dei referti". Fatto il prelievo del sangue, me ne torno a casa rimuginando: un risultato alto è la cosa peggiore che uno possa aspettarsi; quindi la burocrazia, con la richiesta del ticket supplementare, ha inconsapevolmente inventato un nuovo sistema per comunicare una diagnosi poco simpatica. Addio alle occhiate di sfuggita ai fogli degli esami per spiare se gli asterischi sui risultati anomali sono pochi o tanti. Stavolta basterà sentirsi dire: "Guardi, ci sono da pagare altri tre euro...". Da ipocondriaco come sono, immagino che potrei restarci secco. E i giornali, come riferirebbero il fattaccio? Mi prenderebbero per il solito tirchio: "Genovese muore d'infarto alla richiesta di un ticket".

domenica 25 settembre 2011

Nini Paglieri

E' un dolore privato quello per la perdita di mio cugino Nini Paglieri, industriale dei cosmetici, perito per un malore nella piscina della sua casa, a Cascinagrossa. Voglio però che del tragico evento rimanga memoria anche in questo diario elettronico. Con Nini ci eravamo incontrati per la prima volta nella villa dei suoi nonni, a Castelceriolo. Era l'8 settembre del 1943, la radio trasmetteva l'annuncio dell'armistizio. Nini aveva quattro anni, io - orfano di padre da pochi giorni - dieci. La guerra ci disperse nei rifugi, nei paesi, sulle colline, ma le nostre famiglie non cessarono mai di mantenere i contatti. Ci ritrovammo con il ritorno della pace e, da allora in poi, ci demmo appuntamento ogni anno, a mezzogiorno del primo Novembre, davanti alle tombe dei nostri vecchi, nel cimitero di Alessandria. Mantenemmo l'impegno per 65 anni: una preghiera per chi se n'era andato, una carezza ai figli cresciuti, il racconto degli ultimi eventi a scuola e sul lavoro. Poi a tavola con gli altri cugini, giunti da Torino, da Novi, persino dal Kenia. Nini, ospite generosissimo, era sempre puntuale e affettuoso, anche se non credeva ciecamente nei legami di sangue. Diceva "E' importante che siamo parenti, ma è soprattutto importante che siamo amici veri". Avevi ragione, Nini, con te ho perduto un grande amico.

lunedì 19 settembre 2011

Contrabbando

ll postulante che assediava Enrico Bassano per ottenere recensioni, non era troppo gradito come visitatore del giornale; era invece benvisto un simpatico arruffone, di cognome Aguggia, che praticava un piccolo traffico ai limiti della legge, proponendo più o meno gli stessi articoli che si trovavano sui banchetti di via Pré, ma a prezzi leggermente più favorevoli: per questo era soprannominato "l'onesto contrabbandiere". Nella sua borsa si potevano trovare i famosi "zippi", gli accendini che parevano lanciafiamme; le macchinette "originali Ronson" ambitissime dalle signore fumatrici; soprattutto stecche di sigarette con la fascetta "Sea Store"(cioè "provvista di bordo") che arrivavano direttamente dall'America ed erano - si diceva - molto più buone delle consorelle della stessa marca uscite dalle fabbriche europee. L'"onesto contrabbandiere" offriva anche, sporadicamente, i "rand" sudafricani, monete d'oro fuori commercio in Italia per via della lotta all'apartheid. Il "clou" delle vendite veniva raggiunto quando apparivano le sigarette e proseguiva poi quando uscivano dalla borsa pregiati pezzi di "mosciame", carne essiccata ottenuta sottraendo il filetto a sventurati delfini. Cibo ecologicamente scorretto ma insuperabile complemento, a fettine sottili, di gustose insalate di pomodori.

martedì 13 settembre 2011

Raccomandazioni

Enrico Bassano era, negli anni Cinquanta, il critico musicale e teatrale più seguito di Genova e ogni suo intervento sul "Secolo XIX" veniva letto, riletto e commentato dagli artisti. Tanta autorevolezza comportava anche il fastidioso onere delle raccomandazioni, delle quali era assiduo portatore uno di quei personaggi un po' misteriosi che da sempre si aggirano nei giornali. Bassano, pro bono pacis, subiva l'assedio del postulante con buona grazia e s'infilava in tasca i biglietti con i nomi dei raccomandati, spesso dimenticandosene. Il che provocava recriminazioni e scuse, con promesse "per la prossima volta". Una sera Bassano sta per uscire dal giornale e si ricorda improvvisamente di aver garantito un "soffietto" per una signora, protagonista di un concerto alla "Serenissima". Non ha assistito all'esibizione, comunque ritorna alla scrivania e scrive quattro righe magnificando l'impostazione della voce, la sicurezza nei gorgheggi e la grazia dell'artista nel recitato. Spedisce il tutto in tipografia e se ne va. Il giorno dopo, arrivando al giornale, scorge il raccomandante che l'aspetta sul portone: "Hai visto - gli dice - che mi sono ricordato? La finirai di dire che non mantengo mai le promesse!". L'altro si mette una mano sulla fronte e geme: "Bassàn, a l'èa 'na pianista!" (Bassano, era una pianista!).

mercoledì 7 settembre 2011

Scialla

Al festival di Venezia hanno proiettato un film che s'intitola "Scialla". Il regista, Francesco Bruni, ha spiegato che la strana parola scelta per il titolo ricorda un certo slang giovanile romano e significa "Stai calmo, non te la prendere". Lui stesso si sente dire "Scialla" una cinquantina di volte al giorno dai figli adolescenti. Che i giovani romani abbiano adottato questa forma gergale non c'è dubbio, ma che si tratti di romanesco ho i miei dubbi: non occorre essere dei gran linguisti per capire che "scialla" è stato portato a Roma dagli extracomunitari arabi nella sua forma originale "Insciallàh" che significa "E' volere di Dio". Gli arabi usano con frequenza questa esclamazione (che ha dato anche il titolo a un romanzo della Fallaci) per esprimere il fatalismo religioso che accompagna, nei successi e nelle crisi, la loro esistenza. Se, adesso, anche i giovani romani (che già hanno fama di non essere dei fulmini) si mettono a considerare gli eventi grandi e piccoli come fatti ineluttabili ed estranei al volere umano, non siamo ben messi. Una nota nostrana: nell'Ottocento si diceva "Scialla!" anche a Genova: corrispondeva all'italo-partenopeo "sciala popolo!" che commentava ironicamente concessioni micragnose. Luigi Bianchi detto il Boa scriveva: "Scialla, scialla, vivaddio, semmo o popolo ciù istruìo!". Lo siamo ancora?

giovedì 1 settembre 2011

Incendi

Il caldo quest'anno non ci ha dato tregua e non sono mancati, come al solito, gli incendi boschivi. Annunciatori costernati, in Tv, hanno parlato di "autentici roghi di macchia mediterranea". Ai tempi della Prima Repubblica, la musica era diversa: il ministro dell'Interno, Paolo Emilio Taviani, rimasto di guardia a Roma, faceva sapere che la situazione ferragostana in Italia era tranquillissima: "Si segnalano solamente alcuni incendi di macchie". Questo succedeva quando la macchia non si tirava dietro, costantemente, l'aggettivo "mediterranea", così come il cane fa con la sua coda. Uno sentiva degli incendi e pensava: "Bene, l'anno prossimo le more saranno più grosse e più buone!". Invece, adesso, se gli arbusti pigliano fuoco, i Canadair ti sfiorano i capelli per andare a spegnerli. Perché c'è stato questo cambiamento? Credo che la svolta sia avvenuta quando bruciò una parte del monte di Portofino: in quella circostanza uno studioso fece notare che erano andate distrutte delle rare specie vegetali, esclusive di quella zona, denominate "macchia mediterranea". Apriti cielo, da allora la macchia semplice ha cessato di esistere: dovunque bruci uno sterpeto, anche sul Gran Sasso o nelle Dolomiti, è sempre la "macchia mediterranea" ad andare in fumo. Le frasi fatte sono riposanti per il cervello, non per i Canadair.

venerdì 26 agosto 2011

Cercatori

Il Decimonono ci ha fatto sapere che a New York e precisamente nella 47.ma strada, nota per le lussose gioiellerie, un tizio di nome Raffi si dedica a rovistare tra cunette e marciapiedi e tira su preziosi e valori per un totale di cinquecento dollari al giorno. Tutta roba perduta chissà quando e da chi. L'articolo, di per sé divertente, ha assunto anche un involontario risvolto comico per via di una papera ortografica dell'autrice che, forse obnubilata dall'appetito, invece di scrivere "melma dorata", ha digitato sulla tastiera "melma d'orata". L'ingegnoso Raffi non può rivendicare una primogenitura nel suo singolare lavoro: come al solito, i genovesi l'hanno fatto prima di lui. Il pioniere nostrano si chiamava Michele Canzio ed era, oltre che consuocero di Garibaldi, impresario del "Carlo Felice". Una sera, subito dopo lo spettacolo, si mise a guardare sotto le poltrone della platea. La gente che usciva notò il suo strano atteggiamento e chiese: "Sciù Canzio, cosa sta cercando?". "Un mezzo marengo". "Accidenti, aspetti che l'aiutiamo". Una decina di persone si mise alla ricerca: niente. "Ma dove l'ha perduto?" chiese uno dei soccorritori. "Perduto? Io non ho perduto niente. Ho solo pensato: possibile che, con tutta la bella gente che c'era stasera a teatro, a nessuno sia caduto di tasca un mezzo marengo?"

sabato 20 agosto 2011

Sestri Ponente

A Sestri Ponente, delegazione di Genova, hanno creato un casalingo "Viale delle Stelle", affiggendo nei portici targhe commemorative dei personaggi più amati dai sestresi. Sono stati chiesti suggerimenti per altre epigrafi e io ho proposto che sia ricordato il pittore Mario Canepa, un omino dallo sguardo mansueto, con le mani rattrappite da tanti anni di lavoro come operaio dell'Ansaldo. Canepa dipingeva quadri di grande bellezza, ma sua moglie li distruggeva perché temeva che quell'attività facesse perdere al marito la modesta pensione con cui vivevano. Così l'artista si era ridotto a dipingere in segreto in una baracca sul greto del Chiaravagna. Mario Canepa faceva parte di un folto gruppo di pittori sestresi che, negli anni Settanta, si riuniva e allestiva mostre nelle vecchie prigioni di via Raimondo Vigna. Tra quegli artisti ricordo in modo particolare Anna Genaro, non solo per i suoi dipinti, ma anche la sua tristissima fine. Ammalata di cuore, in preda a continue crisi, aveva deciso di sottoporsi, in Francia, a un intervento chirurgico quasi disperato. La sera prima dell'operazione mi telefonò, cercava solidarietà e incoraggiamento. Avrei voluto dirle parole rasserenanti, ma mi tradì la voce, spezzata dalla commozione. Il mattino dopo mi chiamò il marito: la povera artista era morta sotto i ferri.

domenica 14 agosto 2011

Stagno

Nei primi anni Sessanta la redazione sportiva del Decimonono era composta da un caposervizio, Ernesto Chiossone, e da due redattori, Beppe Barnao e Pier Lorenzo Stagno; quest'ultimo scomparso pochi giorni fa. I due "soldati semplici" avevano caratteri diversissimi: sempre allegro Barnao, sempre pensieroso Stagno. Beppe arrivava al giornale imitando gli strilloni: "Orribile, orribile!", Pier Lorenzo, concentrato, aspettava che Chiossone dicesse come impostare la pagina e poi scattava: "E nu, capu!". Questo suo "E no, capo!" poteva riguardare indifferentemente una fotografia o un articolo, la scelta di uno sport minore o un pronostico sulla partita domenicale. Il "capo", gran signore, accettava ogni volta di discutere, mentre Barnao si eclissava, non volendo diventare arbitro della contesa. Finiva quasi sempre che Stagno rinunciava all'obiezione, ma si sapeva già che avrebbe ripetuto il suo "E nu, capu!" il giorno successivo. La carriera giornalistica di Pier Lorenzo è stata lunga e piena di successi. Stavo per scrivere soddisfazioni, poi ho capito che era un termine improprio: sul lavoro, lui soddisfatto non l'ho visto mai. Ha avuto un indiscusso merito, quello di aver creduto nel futuro della pallanuoto quando a bordo vasca c'erano a malapena trenta spettatori. Una grande intuizione.

lunedì 8 agosto 2011

Il caporale

Che sia un'estate stile Parolisi? Il caporale sospettato di uxoricidio sta riscuotendo molti consensi nel mondo femminile, al punto da far vacillare il trono del fotografo Corona. Nel mio osservatorio di Pietra Ligure, cittadina balneare strapiena, i cloni di Parolisi in cerca di conquiste sono parecchi: si riconoscono dai pantaloni al ginocchio sovrastati da una camicia maschile lasciata libera di penzolare a dispetto della cintura. Sguardo diritto, gambe gettate avanti con vigore, andatura a soldatino grazie al movimento a pendolo delle braccia distese. La barba non è lunga ma ben visibile, il taglio dei capelli fa pensare alla naia. Nella folla vacanziera non mancano anche cloni mal riusciti del caporale macho, giovanotti che indossano camicie con i tagli laterali e le punte arrotondate: in questo caso l'effetto pinguino è inevitabile. il primato dell'involontaria comicità spetta ai marciatori marziali che muovono sì le braccia, ma le portano avanti contemporaneamente, per di più piegando i gomiti: è un movimento che in Sicilia chiamano "a casciabbattennu", perché sembra simulare la camminata di chi procede facendosi rotolare davanti una cassa d'imballaggio. P.S. Apro il Decimonono di oggi e trovo una foto del ministro La Russa, anche lui in "tenuta estiva Parolisi". Ora mi tormenta un dubbio: chi ha copiato chi?

martedì 2 agosto 2011

La strage

La strage dei ragazzi norvegesi ha fatto inorridire tutti; chi doveva vigilare l'ha definita incredibile e imprevedibile e forse ha ragione: si poteva mettere in preventivo che, di fronte a quel fenomeno di massa che è l'immigrazione straniera, un pazzo si mettesse a sparare; io per primo, però, ritenevo che l'eventuale esplosione di rabbia si sarebbe sfogata su qualche malcapitato africano o rumeno. Invece, nella sua lucida follia, lo sparatore ha scelto come vittima sacrificale la gioventù iscritta a un partito ritenuto responsabile dei mutamenti etnici. Il tragico colpo di scena allarga enormemente il numero dei possibili bersagli e li rende praticamente indifendibili. Io spero che questa nuova insidia consigli un calo di tono e di frequenza nelle esternazioni che presentano l'immigrazione come una ricchezza inestimabile, la soluzione di tanti nostri problemi, l'irrompere di splendide culture atte a spazzare via le muffe della vecchia Europa e via dicendo. Mi chiedo con angoscia se non sarebbe meglio, di fronte alle miserande vite che sbarcano a Lampedusa, chiedere gesti di pietà e di carità, invece di sbandierare il diritto internazionale e le risoluzioni dell'Onu. Credo che nessun folle, per quanto tale, interpreterebbe come sfida e affronto il dono di un'esistenza meno grama agli ultimi del mondo.

mercoledì 27 luglio 2011

Lamboglia

L'apertura delle sedi di rappresentanza di tre ministeri in alcune stanze della Villa Reale di Monza mi ha fatto ripensare a quando Mussolini insediò sulle rive del Garda i ministeri della sua repubblica sociale, più conosciuta, appunto, come repubblica di Salò. Per carità, nessun tentativo di accostamento politico con l'iniziativa della Lega; solo un'analogia logistica, suggerita da quanto mi raccontò, nel 1955, il professor Nino Lamboglia, gran tutore delle memorie storiche e artistiche della Liguria: "Andavo a Salò per chiedere fondi, c'erano da proteggere centinaia di opere d'arte insidiate dalla guerra. I ministeri che m'interessavano erano tutti su una piazza, in un minuto uscivo da uno ed entravo nell'altro. Una meraviglia, mi sbrigavo in poche ore, a Roma ci avrei impiegato una settimana". "Ma, professore, nessuna remora politica?". "A me interessava salvare quadri e sculture". Che Lamboglia fosse così lo dimostrò il seguito della storia: andò a Mentone a recuperare preziosi archivi ma subì un attentato da parte dei partigiani francesi; finì all'ospedale con la sua assistente, lei ci rimise una gamba. Guarito, il testardo professore riprese la sua attività, rivolgendosi questa volta agli occupanti americani, che gli assegnarono una jeep con autista: "La jeep? Una meraviglia, arrivavo dovunque in un momento!".

giovedì 21 luglio 2011

Un giallo

Si è sparato Mario Cal, braccio destro di don Verzé al "San Raffaele" di Milano, il colossale centro medico e culturale finito in prima pagina per un miliardario buco di bilancio. Sono cominciate le dietrologie, tutti a chiedersi il perché di quel suicidio. Secondo me, una spiegazione potrebbe essere questa: Cal, ex corridore ciclista ed ex manager di ciclisti, amava profondamente quello sport; è pertanto probabile che l'altro pomeriggio avesse seguito, come tantissimi italiani, la telecronaca di una tappa pirenaica del Tour de France. Durante la trasmissione un telecronista aveva rievocato la figura di Luis Ocana, re delle salite, citando anche la fine del ciclista, suicida a 49 anni con un colpo di pistola dopo aver ricevuto una diagnosi infausta. Nel racconto era stato anche ricordato che Ocana aveva disposto che le sue ceneri fossero sparse lungo i due versanti dei Pirenei. La rievocazione del telecronista mi aveva fatto venire la pelle d'oca; immagino che altrettanto sia successo a Mario Cal, se l'ha ascoltata. Se poi sia stata quella scintilla a provocare il fatale incendio nella mente del manager forse non si saprà mai. Rimane comunque valido, secondo me, l'insegnamento dei giornalisti di un tempo: "Evitare il più possibile di riferire casi di suicidio, sono gesti privati e, per di più, contagiosi".

venerdì 15 luglio 2011

Ciclisti

Il ciclismo visto in Tv è uno spettacolo impagabile: non mi perdo una tappa, sia del Giro sia del Tour e ogni volta rimpiango di non essere mai stato, come giornalista, al seguito delle grandi carovane. Sul teleschermo si vede moltissimo, ma anche il resto, una gran mescolanza di urla, imprecazioni, vesciche, sangue, sudore, linimenti varrebbe la pena di essere vissuto, se non altro come metafora della vita di trincea. Di questa babele delle due ruote mi parlava spesso, al Decimonono, un collega, Franco Rubino, che aveva alle spalle un numero altissimo di partecipazioni al Giro d'Italia, come inviato speciale. Era un racconto giocoso, ironico, di quelli che solamente gli spezzini sanno mettere insieme: lasciati da parte i grandi campioni, emergevano le vicende minime dei gregari, proletari del manubrio. Poi Rubino descriveva i piccoli concorsi che venivano organizzati a beneficio dei giornalisti: premi senza pretese a chi risolveva quiz sul ciclismo. Erano proprio garette, ma anche il principe degli inviati, Adriano De Zan, si faceva in quattro per vincerle. Invano, perché veniva quasi sempre superato da Rubino. Ora De Zan è un simpatico ricordo, mentre Rubino, in pensione, passa l'estate a Bocca di Magra. Che fa? Colleziona edizioni dei libri di Woodhouse. Valli a capire, gli spezzini.

sabato 9 luglio 2011

Pagamenti

Stavo chiudendo le valigie: nell'ultimo controllo alla cassetta della posta ho trovato la bolletta della spazzatura, spedita dall'Amiu. Non mi sono meravigliato della poca tempestività dell'invio, anche lo scorso anno mi era capitato di ricevere la stessa tassa in pieno tempo di ferie. Stavolta, per la verità, c'è una variante: l'anno scorso per pagare la prima rata c'era tempo fino al 29 settembre, quest'anno la scadenza è al 25 luglio. L'Amiu pensa, evidentemente, che gli italiani abbiano inventato un nuovo modo di trascorrere le vacanze: stare a casa ad attendere i bollettini postali per poterli pagare senza mora. Dopo le giaculatorie di rito ho guardato l'elenco dei punti nei quali si poteva pagare la bolletta: una lunga serie di filiali di banche, ma nessun accenno ai tabaccai abilitati a sbrigare i bollettini prestampati. Ho fatto comunque un tentativo, ma il tabaccaio vicino a casa mi ha detto scuotendo la testa:"Sì, potrei pagarlo, ma oggi ho esaurito la quantità di bollettini consentita. Mi dispiace". Ecco un'altra grande trovata: aiutiamo gli italiani a non fare code estenuanti, ma solo fino a un certo punto, altrimenti le code spariscono. Comunque, ho scoperto un altro tabaccaio meno frequentato: me la sono sbrigata in due minuti. All'anno prossimo e ad altre avventure da contribuente per la "rumenta".

domenica 3 luglio 2011

Bozano

Il tribunale ha respinto la richiesta di semilibertà avanzata da Lorenzo Bozano, che sta scontando l'ergastolo per l'uccisione di Milena Sutter, tredicenne figlia d'un industriale genovese. Il delitto avvenne nel 1971, Bozano è in carcere dal 1980, dopo essere stato latitante all'estero. Lo incontrai una sera in redazione, quando ancora non si sapeva della tragica fine di Milena: la ragazza risultava solo scomparsa ed era arrivata la richiesta di un riscatto. Quella sera Bozano veniva dalle guardine della questura: si pensava che fosse lui l'autore del sequestro ma l'avevano rilasciato allo scadere del fermo perché Milena, forse chiusa da qualche parte, rischiava di morire per abbandono. Dissi a Bozano, che era venuto al giornale a proclamare la propria estraneità ai fatti: "Avrà capito che l'hanno lasciato andare soprattutto perché temono che Milena muoia. Lei afferma di essere innocente, ma che cosa farebbe, se fosse il rapitore? Andrebbe a soccorrere Milena con il rischio di farsi pedinare e scoprire, oppure la lascerebbe morire, magari sperando ancora nel riscatto?". Mi rispose in modo ambiguo: "Bisognerebbe sapere quale importanza dà quel rapitore al denaro e alla vita umana". Nove giorni dopo, il cadavere di Milena fu restituito dal mare: era stata uccisa subito dopo il rapimento.

lunedì 27 giugno 2011

Bersani

Un sincero applauso a Bersani, che è venuto a Genova ad aggiornare la sua ormai famosa serie di "Non siamo mica..." scegliendo un modo di dire tipicamente ligure: "Non siamo mica qui ad asciugare gli scogli...". Se l'avesse detto in dialetto ("Nu semmo miga chi a sciugà i scoeggi!") avrebbe riscosso un'oceanica ovazione, ma non si può pretendere la parlata di Govi da un piacentino come lui. Certo, Bersani è venuto proprio nella patria del "Non siamo mica...", perché i genovesi ormai da secoli celano la loro vera essenza dietro le cortine fumogene delle allusioni. Se andiamo nell'alta cultura, ecco Montale: "Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo e ciò che non vogliamo". Poi, passando alla saggezza popolare, ecco il "Boa", Luigi Bianchi, che era più reciso nelle immagini: "Non siamo mica qui a fare impacchi su una gamba di legno!" oppure "Non siamo mica qui a pestare l'acqua nel mortaio!". Altri cento di questi "Non siamo" si nascondono nelle pagine di un bel libro ("Pe moddo de dì", cioè per modo di dire) che scrissero insieme Nelio e Ivana Ferrando: ne colgo qualcuno al volo: "Non siamo mica qui a legare i cani con le salsicce!", "Non siamo mica qui a farci bruciare gli occhi dalle cipolle degli altri!", "Non siamo mica qui a vantarci del sole di luglio!". Troviamone altri, è un bel gioco.

martedì 21 giugno 2011

Alfredino

Nel suo ultimo libro Walter Veltroni scrive a lungo di Alfredino, il bimbo che nel 1981 cadde nel cunicolo di un pozzo artesiano e, nonostante gli sforzi dei soccorritori, non poté essere salvato. Fu una tragedia amplificata dalla diretta televisiva. Quella notte ero responsabile delle "ribattute" del giornale, cioè dei rifacimenti delle pagine in occasione di eventi straordinari. In quei casi, ogni minuto di ritardo voleva dire migliaia di copie in meno per la vendita. Seguii la vicenda sul video e quando seppi che un eroico volontario aveva raggiunto il bambino a 36 metri di profondità, in un inferno di buio e di fango, mi precipitai in tipografia per organizzare la ribattuta. Riuscii a staccare dal televisore un paio di compositori e di impaginatori e mi misi a scrivere a mano poche righe per annunciare il lieto fine della sconvolgente vicenda. Dissi a un tipografo di preparare il titolo: "E' salvo!", con tanto di punto esclamativo. Mi rispose che non aveva i caratteri adatti per comporre un titolo così breve e allora lo raddoppiai: "E' salvo, è salvo!". Mentre lavoravo m'immaginavo il bambino che stava risalendo dal ventre della terra, come per una sua seconda nascita. La speranza durò pochi minuti, poi la tv disse che il tentativo era fallito e che non c'era più niente da fare. Il titolo rimase sul bancone, non ebbi cuore di gettarlo via.

mercoledì 15 giugno 2011

I tombini

L'acqua "privatizzata", bocciata dai referendum, non sarebbe stata un grande choc per Genova, che già in passato si era adattata a questa condizione. Prima che il sindaco Pertusio realizzasse, negli anni Cinquanta, il grande bacino del Brugneto, la nostra città poteva dissetarsi, compiere le abluzioni, fare il bucato e spegnere gli incendi solamente perché veniva rifornita da due acquedotti privati, il Nicolai e il De Ferrari Galliera. L'importanza di queste due strutture idriche è testimoniata dal gran numero di tombini di ghisa che costellano il selciato della città in corrispondenza delle prese d'acqua e delle ripartizioni: su queste migliaia di piastre ormai annose (alcune portano ancora l'emblema del fascio) spiccano le scritte "Acqua Nicolai" oppure "Acquedotto DFG": il De Ferrari Galliera, appunto. Un giovane amico della mia famiglia, il dottor Janin, si era dedicato, anni fa, a una catalogazione sistematica dei tombini genovesi; ne era venuta fuori una storia minore della città assai affine agli studi di un altro nostro amico, il professor Tiziano Mannoni, famoso per aver teorizzato l'esistenza di una "cultura materiale" capace di affiancare (e talvolta di smentire) la cultura di tipo classico. Andando a passeggio, val davvero la pena di dare, ogni tanto, un'occhiata ai tombini. Anche loro sono pagine di storia.

giovedì 9 giugno 2011

Il sindaco

Conoscevo bene Fulvio Cerofolini, sindaco di Genova tra il '75 e l'85, deceduto pochi giorni fa. Possedeva la giusta ambizione di chi era venuto su dal nulla o poco più. Aveva cominciato a lavorare come bigliettario sui tram; uno dei suoi due fratelli faceva il custode di un museo genovese, l'altro era operaio. Il custode e l'operaio non avevano fatto carriera, lui, invece, si era messo nel sindacato ed aveva scalato la gerarchia politica fino a divenire vicesindaco (socialista) nella giunta guidata dal democristiano Piombino. Giunto a quel punto, Cerofolini fece il ribaltone e portò via il posto a Piombino, formando una giunta di sinistra e districandosi bene tra le alchimie del potere. Non gli mancava l'intelligenza, sorretta da una cultura conquistata da autodidatta. Era nato a Genova da madre genovese, ma suo padre veniva da Arezzo, una zona dove i Cerofolini abbondano. Quell'ascendenza mi pareva curiosa: dall'Aretino, esattamente da Cortona, proveniva infatti anche Vannuccio Faralli, primo sindaco di Genova dopo la Liberazione. Troppi due sindaci nostrani con radici nella stessa lontana terra: difficile pensare a un caso, forse c'era una parentela, o un'amicizia tra compaesani rivelatasi preziosa per i primi passi politici di Cerofolini. Ho cercato invano lumi nei necrologi. Aspetterò la biografia.

venerdì 3 giugno 2011

Il sogno

Giovanni Giudici era al "top" tra i poeti italiani, pubblicava versi da Mondadori, non so se mi spiego. Viveva alle Grazie, un borgo marinaro presso La Spezia. Se n'è andato l'altro giorno, a 86 anni. Lo conoscevo in modo indiretto, faceva parte di un trio immaginario che dava un po' d'incanto alle notti passate al giornale, in attesa della seconda edizione da curare con nuove notizie, correzioni e aggiornamenti. In quelle ore il mio capocronista, Pietro Ferro, anche lui delle Grazie e cugino del poeta, ci raccontava i suoi progetti per il tempo della pensione, non molto lontano: "Il mio amico Baraca mi ha tirato a lucido la barca; le reti e il bolentino sono a posto. Andremo a sàraghi e a occhiate, lasceremo perdere le acciughe. E porteremo con noi Giovanni Giudici con un buon libro. Ve l'immaginate, una lettura dantesca con il sole a picco sul canale della Palmaria, di fronte a Portovenere, con Lerici laggiù e il Tino un po' nascosto...". Socchiudevamo gli occhi e ci immaginavamo anche noi nel Golfo dei Poeti, magari a recitare: "Guido i' vorrei che tu, Lapo ed io...". Poi, una sera, Pietro, con le lacrime agli occhi, mormorò: "Baraca è morto. Il sogno è finito". Forse anche per questo non durò molto, dopo la pensione. Ora è scomparso pure Giudici. Ma la Palmaria è là, a far nascere altri sogni.

sabato 28 maggio 2011

La sorpresa

L'annuncio della scomparsa di Franco Viezzoli, per molti anni al vertice delle più grandi industrie statali, mi ha riportato alla mente la figura di sua madre, una gentile signora che abitava in uno splendido appartamento del Grattacielo dell'Orologio, in piazza Dante a Genova. In quella casa vidi, molti anni fa, una cosa straordinaria, una raccolta di piccoli dipinti trecenteschi a fondo oro, opera di celebri pittori italiani e fiamminghi. Strano a dirsi, la signora Viezzoli si era un po' stancata di guardare solo i "fondo oro" e voleva dedicarsi anche alla pittura del primo Novecento ligure: mi chiese un parere su alcuni bozzetti di Eugenio Olivari che intendeva acquistare e io glieli consigliai caldamente. Conversando, la signora mi parlò anche della sua casa: raccontò d'averla acquistata subito dopo il matrimonio, mentre il marito era negli Stati Uniti per affari. Al ritorno del coniuge era andata a incontrarlo allo sbarco dalla nave (allora non si viaggiava ancora in aereo). Imbarazzata per aver fatto di testa sua un acquisto così importante disse subito al marito: "Sai, caro, ti ho fatto una sorpresa, ho comprato casa. Ma adesso non so se ti piacerà!". "Mio marito mi abbracciò e mi disse: "Potrebbe non piacermi solamente se l'avessi comprata sul grattacielo!"". "E come andò a finire?". "Ci si abituò".

domenica 22 maggio 2011

Statistiche

Chissà perché mi è venuto in mente di occuparmi, la volta scorsa, di un noto personaggio che, seduto in terra e con una coperta sulle spalle, guardava la televisione: adesso ho il dubbio d'aver infilato la mano in un nido di vespe. Ecco il perché: il mio blog è provvisto di un sistema di rilevamento statistico che consente di apprendere non soltanto il numero di collegamenti da parte di lettori, ma anche la nazione in cui vivono i lettori stessi. Io pensavo, ingenuamente, che il mio lettore più lontano fosse l' amico Giovanni che abita a Canino; la statistica mi ha detto, invece, che esistono persone interessate al mio blog fin nelle più remote contrade del mondo: negli Stati Uniti, in Germania, in Francia, in Cina, in Giappone, perfino in Bulgaria e in Russia. Contatti da numerare talvolta sulle dita di una mano, ma pur sempre reali. Ritengo che tutto ciò nasca da un sistema automatico che segnala, a chi è abbonato al servizio, l'uso di determinati nomi o di determinate parole in qualsiasi testo. Così dev'essere accaduto quando ho scritto il nome del personaggio al quale accennavo all'inizio di questo discorso: a quel punto, ai Paesi che si sono collegati con il mio blog, si è aggiunto l'Iran. Se sono vere le chiacchiere che circolano, non si tratta di un contatto tranquillizzante. Io, quel signore là, non lo citerò mai più.

lunedì 16 maggio 2011

Bin Laden

"E' lui o non è lui?". Un Bin Laden vecchio, seduto in terra con una coperta sulle spalle non soddisfa i "media". Così è partita la tesi della ripresa falsa. Non sarebbe un fatto nuovo, l'incredulità ha già affondato celebri immagini, accusandole di essere frutto di scene costruite: quella, ad esempio, della bandiera americana piantata a Iwo Shima e quell'altra del vessillo sovietico sventolato sul Reichstag. Si è anche esagerato nella ricerca del falso: a Genova hanno dovuto fare una mostra per difendere la famosa foto del miliziano colpito, scattata da Robert Capa. Ai nostri giorni, poi, sulle foto d'attualità pende costantemente l'ombra del Photoshop, il metodo elettronico per modificare le immagini. Siamo ormai ridotti a non poter credere ai nostri occhi. Comunque, anche il Photoshop ha i suoi meriti: per esempio, è un uso di casa mia inviare ai parenti, per le Feste, un cartoncino d'auguri con la fotografia della famiglia riunita. Ogni anno non è facile mettere insieme, per lo scatto, nonni, genitori e nipoti: siamo in quattordici. Una delle ultime volte mancava un nipote, ma ha provveduto il Photoshop ad aggiungerlo al gruppo. Quest'anno cambierò: sto pensando di sedermi in terra e di farmi fotografare con una coperta sulle spalle. Così qualcuno dirà: "Ecco chi era, altro che Bin Laden!"

martedì 10 maggio 2011

Le fedi

Il momento più imbarazzante delle nozze dell'anno si è registrato quando William ha stentato a infilare la vera nel dito di Kate. Al paese di mia madre, Fiorenzuola d'Arda, il contrattempo sarebbe stato impossibile: tutte le mie cugine si sono sposate con l'anulare piegato e hanno provveduto da sole a far scivolare la fede nell'ultima falange. Era una tradizionale affermazione d'indipendenza femminile in una terra (quella emiliana) che peraltro non ha mai messo in dubbio il fatto che in casa comandino le "rasdùre" cioè le mogli. Il contrattempo della vera mi ha fatto ripensare alle mani dei miei genitori: portavano entrambi una fede di acciaio, perché quella d'oro l'avevano donata alla Patria nel 1936, all'epoca delle sanzioni contro l'Italia. Avevano compiuto quel gesto in numerosa compagnia: le vecchie statistiche ricordano che, in provincia di Genova, furono offerte 158mila923 vere nuziali. L'usanza risaliva alla prima guerra mondiale, il regime la spettacolarizzò mettendo in piazza i crogioli incandescenti. Oggi, sarebbe possibile tutto ciò? Personalmente, se Napolitano mi chiedesse la vera per far diminuire lo spaventoso debito pubblico, gliela darei volentieri: tra l'altro giace in un cassetto perché non mi entra più, con gli anni mi si sono gonfiate le dita. Ma quanti altri italiani risponderebbero all'invito?

mercoledì 4 maggio 2011

Il Papa

Confronto a distanza tra il Papa cinematografico di Nanni Moretti e un Papa vero, Giovanni Paolo II, che, da morto, ha radunato a Roma un milione e mezzo di fedeli. Ho letto i giudizi più disparati sul film, ma mi ha colpito, sopra tutto, la mancanza di ogni accenno allo Spirito Santo, che nell'elezione di un Pontefice ha un ruolo primario, almeno secondo la Fede. Ho esternato questa mia osservazione a un'amica cattolicissima, che mi ha risposto "Sul trono di Pietro, nel corso dei secoli, è salita anche gente poco raccomandabile: dov'era, in quel caso, lo Spirito Santo?". Insomma, pare che il "Veni creator Spiritus" intonato nel conclave non riscuota più assoluta credibilità tra i praticanti. Per conto mio, continuo ad aver fiducia nella bianca colomba che discende dai cieli: secondo me il Papa è un eletto misterioso, che riceve un carisma straordinario. Ho provato di persona questa fascinazione quando Giovanni Paolo II venne a Genova nel 1985. Affiancato dal cardinale Siri stava andando con la "papa mobile" alla chiesa dell'Immacolata, dove l'aspettava una folla di fedeli. In via Roma, dove mi trovavo io, non c'era, invece, quasi nessuno. Il Papa passò, scorse un bambino poco distante da me e lo benedisse. In quel momento mi accorsi di essermi inginocchiato. Eppure non avevo mai pensato di farlo.

giovedì 28 aprile 2011

Koblet

Vidi il ciclista svizzero Hugo Koblet in piazza Acquaverde, a Genova, nel 1954. Era appena uscito dall'hotel Colombia: appoggiato alla bici da corsa, si pettinava i capelli biondi, che portava all'indietro, con un accenno di onda. Guardava nel vuoto, sorridendo: stava gustando mentalmente una raffinata vendetta sportiva. L'anno prima il suo compatriota Carlo Clerici, che militava in un'altra squadra, gli aveva dato una mano nella lotta per la maglia rosa; lui aveva vinto il Giro, ma Clerici era stato licenziato in tronco. Koblet promise all'amico: "L'anno prossimo vincerai tu". Infatti, grazie a una "fuga bidone", il modesto gregario indossò la maglia rosa e non se la tolse più fino a Milano. Koblet fu ben lieto di arrivare secondo. Il campione svizzero non era nuovo a rivincite del genere: nel 1951, durante il Giro di Francia, aveva chiesto un po' d'acqua a Bartali, ma il campione toscano, per tutta risposta, l'aveva platealmente versata in terra. Pochi giorni dopo, in una tappa a cronometro, Koblet raggiunse Bartali partito prima di lui e, senza dire una parola, gli mise nel porta-borraccia un contenitore pieno d'acqua. Poi andò a vincere. Più che per la bravura, mi piaceva per questa sua signorilità, Hugo Koblet, così rimasi a guardarlo finché non ripose il pettine nella tasca della maglia e si avviò alla partenza di tappa.

venerdì 22 aprile 2011

Noccioline

Un'intera pagina di necrologie sul Corriere della Sera ha dato la misura dell'importanza e della popolarità di Pietro Ferrero, l' industriale della Nutella scomparso repentinamente. Confesso di aver sottovalutato per anni l'importanza della crema spalmabile, sebbene anche i miei figli siano cresciuti "a pane e Nutella". Mi sono ricreduto da quando ho incontrato un mio compagno di gioventù. Non lo vedevo da anni, ma di lui sapevo tutto attraverso i giornali: aveva iniziato allo sportello di una banca, poi, via via, scalando le cariche, era arrivato al vertice di un grande istituto bancario. Fatti i convenevoli, mi congratulai con lui per la carriera, ma mi rispose: "Lascia perdere, sono andato in pensione". La buttai sul ridere: "Immagino che ti abbiano coperto d'oro, le liquidazioni dei banchieri sono leggendarie...". "E' vero - ammise - ma so già che cosa ne farò". A quel punto pensai: "Stai a vedere che mi dà una dritta su qualche titolo destinato a salire". Invece l'amico mi disse: "Ho già avvistato il noccioleto che fa per me. Sto andando a fare il compromesso". "Noccioleto?". "Certo, hai presente la Nutella? Per farla ci vogliono le nocciole e quelli della fabbrica comprano in anticipo la produzione. E' una rendita sicurissima, altro che Fiat". Gli americani che chiamano noccioline (nuts) le sciocchezze non capiscono proprio niente.

sabato 16 aprile 2011

La bomba

Il dilemma italiano del giorno è: bombardare o non bombardare Gheddafi? Il ministro Frattini ha molti più dubbi di quanti ne ebbe, cent'anni fa, l'aviatore Giulio Gavotti che inventò, proprio in Libia, il bombardamento aereo. Gavotti, che era genovese, fece tutto di testa sua: caricò sull'aereo quattro bombette, poi, giunto sull'obiettivo, tirò fuori dal suo involucro un detonatore, se lo mise in bocca per liberarsi la mano, prese una delle bombe e riuscì a montare il detonatore sull'ordigno sempre con una mano, perché con l'altra doveva governare l'apparecchio; infine strappò con i denti la sbarretta metallica adibita a sicura e buttò fuori la bomba, che arrivò a destinazione e scoppiò. Seguirono gli altri tre proiettili. Di fronte a un'acrobazia del genere occorre ammettere che Gavotti aveva proprio una gran voglia di fare quel bombardamento e agì senza preoccuparsi dei rischi. Un altro esempio? Nel 1825 Giorgio Mameli, padre di Goffredo, andò con un'imbarcazione e un po' di marinai fin dentro al porto di Tripoli e incendiò una nave del bey. Tutto questo per fargli capire che i trattati andavano rispettati. Erano dei pazzi loro o sbagliamo noi ad essere dei tentennoni? Io credo, più semplicemente, che siamo gente di epoche diverse. Lo choc del fungo atomico ci ha cambiato per sempre la testa.

domenica 10 aprile 2011

La pizza

Più di un mese fa ricordavo i fotografi da strada che ti ritraevano a sorpresa e ti consegnavano un tagliando, invitandoti ad andare a vedere lo scatto. Curiosamente, è ora saltato fuori da un cassetto uno di quegli scontrini, conservato perché aveva annotata a retro la ricetta di una torta. Il rettangolo azzurro, della "Rex - Film", dà come recapito "Via Fieschi 3-67 1° piano (sopra Cavanna)". Dall'indicazione tra parentesi si può desumere la notorietà di Cavanna, un ristorante frequentatissimo che, nella parte più prossima all'ingresso, faceva anche tavola calda per lo spuntino serale prima del cinema o del teatro. E' lì che, negli anni Cinquanta, gustai per la prima volta una ghiottoneria che non conoscevo, la pizza. La servivano direttamente in tegliette di ferro grandi quanto un piatto da pietanza; concludeva il bagordo un bicchiere di bianco versato dal baffuto signor Cavanna in persona, che se ne stava dietro al bancone insieme a una sua grande fotografia in divisa da bersagliere. A quell'epoca, la pizza non era neppure citata nella "Guida Pagano" degli esercizi cittadini. Vi fu iscritta solamente nei successivi anni Sessanta, quando, a Sestri Ponente, aprì (e fu un evento) la pizzeria "Arlecchino". Allora, a Genova, c'erano più di centoventi spacci di torte e farinata. Si dimezzarono nel giro di pochissimi anni.

lunedì 4 aprile 2011

In Provenza

L'esodo dei tunisini mi ha dato occasione di rivedere, in Tv, la stazione di Ventimiglia e, in particolare, il corridoio delle partenze per la Francia. In quel corridoio mi bloccò, nel 1955, un agente: "Che cos'ha in quel pacco?". "Dei libri, li porto a Nizza". "Venga con me". Mi condusse nell'ufficio di polizia, dove un maresciallo mi spiegò: "I francesi vietano l'accesso alle pubblicazioni irridentiste italiane. Mi faccia vedere". Aprii il pacco e mostrai i miei libri, trattavano della preistoria ligure. Il maresciallo, soddisfatto, sparò un paio di timbri sulle copertine e mi congedò. I doganieri francesi, visti i timbri, non fecero obiezioni. A Nizza salii su un autobus chiedendo alla bigliettaia di farmi scendere alla fermata giusta. Mi disse di sedere accanto a lei e cominciò a raccontarmi i guai di sua figlia, in lite con il marito. Siccome il racconto era lungo e complicato, mi fece fare un giro e mezzo del percorso dell'autobus. Finalmente giunsi alla meta: dovevo consegnare i libri a un vecchio poeta nizzardo che scriveva versi in provenzale. Si chiamava Rostan e viveva barricato in casa perché, all'epoca della guerra, aveva scritto un paio di articoli rivendicando l'italianità di Nizza. Ora- mi disse attraverso la porta sbarrata - temeva l'arrivo di qualche giustiziere. Gli lasciai i libri sullo zerbino. Fu il viaggio più strano della mia vita.

martedì 29 marzo 2011

La Mille Miglia

La guerra di Libia mi ha riportato agli anni Quaranta, quando seguivo su una cartina le sorti delle truppe italiane; e anche agli anni Cinquanta, quando mi trovai a lavorare con connazionali che erano stati costretti a lasciare la Tripolitania dopo la guerra perduta. Mi sono accorto di familiarizzare ancora con i nomi delle città più note, Tobruk, Bengasi, Agedabia, Misurata, Tripoli, Leptis Magna, Sabratha; sono anche andato su tutte le furie quando un inviato della Tv, descrivendo i luoghi degli scontri, ha detto: "All'interno c'è una località che si chiama Giarabub...". Santo cielo, era mai possibile parlare in quel modo di un'oasi divenuta un mito della mia generazione grazie all'ostinata resistenza del maggiore Castagna circondato dagli inglesi? Ma non è di quelle lontane battaglie che volevo parlare. Volevo dire, invece, che in Libia si è sempre fatta una guerra di movimento, con lunghissimi spostamenti da un caposaldo all'altro, su distanze di centinaia di chilometri. Ad ogni successo e ad ogni avanzata, corrispondeva un allungamento insostenibile delle linee di rifornimento, cosicché la vittoria si trasformava in sconfitta e l'avanzata in ritirata. I soldati chiamavano quell'andirivieni bellico sull'unica strada litoranea con un nome ironico: "La Mille Miglia". Chissà chi la spunterà, stavolta, in quella continua rincorsa.

mercoledì 23 marzo 2011

Il telefonino

Un telefonino ritorna spesso nei miei pensieri, in questi giorni: è quello di Yara, la ragazzina di Brembate uccisa misteriosamente. Il quadro generale delle indagini delinea un fatto violento in cui Yara è stata solo vittima fin dall'inizio: fatta salire con l'inganno su un automezzo, stordita, ferita e lasciata morire, forse di freddo. C'è però un elemento che contrasta con questa ricostruzione: il fatto che la ragazzina avesse in tasca la scheda e la batteria del suo telefonino. Nessun sequestratore, credo, si curerebbe di riconsegnare scheda e batteria a una persona rapita dopo averle sottratto e disattivato il telefonino. E' più logico pensare che sia stata Yara stessa a togliere quegli elementi e a riporli in tasca. Perché lo avrebbe fatto? E' stata costretta sotto la minaccia di un'arma? Sul momento, il gesto non poteva scatenare allarmi: si fanno ricerche sulle celle telefoniche solamente dopo assenze prolungate. La disattivazione poteva quindi servire per non lasciare tracce sul lungo periodo. In generale, il fatto di scollegarsi volontariamente ma di conservare telefonino, scheda e batteria, sia pur separati, è una scelta che si può attribuire a coloro che, intendendo sparire, si lasciano una possibilità di ricollegamento. Ma può essere compatibile con la tragedia della povera Yara uno scenario di fuga come questo?

giovedì 17 marzo 2011

Il Centenario

Oggi, 17 marzo, è giornata di festa nazionale per commemorare i 150 anni dell'Unità d'Italia. Le scuole sono chiuse. Nel 1961, ricorrenza del Centenario, non fecero, invece, vacanza. Me lo ricordo bene, perché in quell'anno insegnavo lettere nella scuola media di Canino, un piccolo centro del Viterbese. Il 17 marzo del '61, dunque, facemmo lezione fino alle undici, poi ordinammo in corteo gli allievi e andammo in cima al paese, a portare dei fiori a un monumentino dedicato ai Caduti della prima guerra mondiale. Ero incaricato di fare il discorso ufficiale e temevo di non sapermela cavare: quel territorio era stato feudo del "Papa Re", poi del principe Luciano Bonaparte fratello di Napoleone, poi del principe Torlonia; neppure la nascita dell'Ente Maremma aveva riscattato i popolani da una condizione di misero bracciantato. Parlare ai loro figli di una grande e generosa Madre Patria non mi sembrava il caso, non mi avrebbero capito. Parlai allora dei morti in guerra, li descrissi come dei giovani che erano andati nelle trincee per dovere, accantonando i loro sogni: c'era chi voleva fare il cantante, chi il pittore, chi vinceva in bicicletta, chi era un grande centravanti. Persone reali, non statue. I ragazzi mi ascoltarono con attenzione, poi ritornarono a scuola in silenzio. Fu una giornata utile, credo.

venerdì 11 marzo 2011

Lo "chaperon"

Il quotidiano che riferisce i commenti alla Festa della donna annuncia anche la dipartita dell'ottuagenaria avvocatessa Anna Maria Secondino, che, negli anni Settanta, teneva un'apprezzata rubrica di critica d'arte sulla "Gazzetta del lunedì". Avevo il suo stesso incarico al "Secolo XIX" e l'incontravo nelle gallerie cittadine. Non dava confidenza, le sue visite alle mostre si svolgevano all'insegna d'un attento rigore. Un anziano, elegante signore l'accompagnava costantemente . I galleristi riferivano che era un ufficiale in pensione il quale svolgeva, per pura amicizia, il compito di "chaperon" della signorina Secondino. Insomma, un garante della sua impeccabile reputazione. Oggi un compito del genere causerebbe un comizio femminista a De Ferrari, ma già in quegli anni l'insolito sodalizio pareva anacronistico. Seguì un colpo di scena: da un giorno all'altro, la rubrica di Anna Maria Secondino sparì dal giornale. Dispiaciuto, m'informai e venni a sapere che il diligente "chaperon", giunto in punto di morte, aveva chiesto alla sua pupilla di non proseguire le visite alle gallerie d'arte "perché non stava bene che una giovane donna svolgesse quel compito senza accompagnatore". E l'avvocatessa, sebbene ormai cinquantenne, aveva esaudito l'estremo desiderio dell'ultimo "chaperon".

sabato 5 marzo 2011

Yara

Leggo sul Decimonono di giovedì 3 marzo: "Yara è salita di sua volontà sull'auto del suo assassino, una persona conosciuta, della quale si fidava. Ha accettato il passaggio in auto forse per arrivare puntuale a casa entro le 19, come chiesto dalla mamma. La ragazzina è stata uccisa pochi minuti dopo. Strangolata". Scrivete Milena al posto di Yara e 17,30 al posto di 19: avrete la cronaca esatta della tragica fine di un'altra tredicenne, Milena Sutter. Accadde a Genova nel maggio del 1971, quarant'anni fa. Il corpo di Milena fu restituito dal mare quindici giorni dopo. Per il delitto ebbe l'ergastolo un giovane, Lorenzo Bozano. Non confessò mai, non fu mai possibile provare che conoscesse Milena. La condanna (dopo un'assoluzione in primo grado) fu pronunciata in base ad altre prove. Ricordo questa storia non soltanto per le analogie con il caso di Yara, ma anche perché tremo all'idea che le indagini in corso portino a una soluzione non evidente, tale da dividerci tra colpevolisti ed innocentisti. Sarebbe davvero il peggior seguito della tragedia. Spero quindi in un altro intervento della buona sorte, dopo quello che ha portato un aeroplanino in panne ad atterrare accanto al povero, introvabile corpo. Solamente buona sorte o evento soprannaturale? E' una domanda inquietante, ma, date le circostanze, inevitabile.

domenica 27 febbraio 2011

Le regate

Trascinato da mio figlio Vittorio, ho assistito a una tornata d'asta che comprendeva un bozzetto del più conosciuto quadro di Eugenio Olivari, "Le regate". E' un'opera che, in una sinfonia di azzurri, fa rivivere lo stile e lo spirito della "belle Epoque" genovese: capannelli di signore con eleganti toilettes, uomini con ampi panama o con tenute da skipper schierati su scalette di legno e sugli scogli di Sturla per assistere alle competizioni a vela. Quel capolavoro fu lasciato in eredità da Max Oberti allo Yacht Club Italiano ed è il sogno di tutti i collezionisti d'arte nostrani: se lo avessero esposto alla mostra "Mediterraneo" in corso a Palazzo Ducale avrebbe annichilito i più celebri dipinti di marine fatti arrivare da ogni parte d'Europa. Il bozzetto in asta è stato disputatissimo: grande un po' più d'un foglio A4, è andato via per ventimila euro. Assistendo alla gara ridevo, ripensando a quarant'anni fa, quando partecipai al premio letterario "Caffaro" proprio con una biografia di Olivari che mi era costata anni di ricerche. Quella volta il riconoscimento non fu assegnato poiché la giuria ritenne che non si potesse dare "un premio così importante" a un'opera (la mia) "dedicata a un artista del tutto sconosciuto". Oggi per portarsi a casa un bozzetto delle "Regate" ci vuole un chilo d'oro. E il premio Caffaro non esiste più.

lunedì 21 febbraio 2011

Il divano

Negli anni Sessanta, in via XX Settembre, c'era ancora la piccola casa d'aste della signora Vitelli, mia vicina di casa in via Lata. Disperdeva, per lo più, arredamenti che provenivano da alloggi dell'alta borghesia. Io, sempre a caccia di quadretti di pittori liguri, non mancavo una tornata di vendite: quando mi aggiudicavo un lotto, l'anziana signora batteva il martello e, sorridendo, diceva: "Finirà in via Lata!". Capitò in asta un divano di una bellezza clamorosa, decorato a mazzi di fiori su fondo bianco: proveniva dal dismesso corredo di scena del teatro Margherita. Ci presi una cotta e, al momento della gara, alzai la mano. Quasi subito, però, mi resi conto di avere un accanito competitore: se ne stava in fondo alla sala e superava ogni volta la mia offerta. Lo scrutavo con astio e mi dicevo: "E quello da dove spunta? Eppure lo conosco...". Per farla breve, fui costretto ad arrendermi. Il giorno dopo ritornai nel salone delle aste per vedere gli oggetti dell'incanto successivo. In un angolo c'era il divano perduto, imballato e pronto per la spedizione: sopra la iuta avevano incollato un foglio con l'indirizzo: "Maestro Umberto Bindi, Roma". Ecco perché conoscevo l'odiato avversario. Quando, quasi quarant'anni dopo, appresi dalla Tv la morte di Bindi, pensai subito: "Chissà che fine farà il divano...". Cose da maniaci, lo ammetto.

martedì 15 febbraio 2011

Le donne

La massiccia manifestazione di domenica per rivendicare la dignità delle donne mi ha riportato alla mente un fatterello al quale ho assistito un mese fa. Ero alla posta per pagare l'abbonamento Tv, ma l'attesa si prolungava perché una giovane donna aveva impiantato una discussione con l'impiegato allo sportello. A un certo punto dalla fila si è levata la voce d'un ometto che era il sosia di Ferribotte: "Le donne...a casa devono restare!". "Mamma mia - mi sono detto - adesso scoppia un putiferio". La destinataria dell'invettiva ha invece risposto, con voce pacata: "Ha ragione, signore, bisognerebbe però che i mariti ricevessero uno stipendio sufficiente per mantenere la famiglia". Ferribotte l'aveva scampata, incocciando una donna che lavora per necessità e non "per realizzarsi". Tutto sommato, quell'episodio ha confermato che il "pianeta donna", spesso rappresentato come una forza omogenea decisa ad appropriarsi del potere, non è per nulla compatto: c'è la donna che lavora per ambizione ma anche quella costretta a sgobbare; quella che segue una vocazione e quella che spende lo stipendio per presentarsi in ufficio abbigliata all'ultima moda. Il mio interrogativo è: quali tra questi sottogruppi stanno tirando la volata alla rivoluzione femminile? E' un fenomeno di base o di un vertice sia pur affollato?

mercoledì 9 febbraio 2011

Babbo Natale

Tutta la gente della mia generazione ha nell'album di famiglia un'istantanea scattata per strada da un fotografo "volontario". L'uomo con la Leica, fatto il lampo, porgeva un tagliando numerato: "Venga a vedere la foto, senza impegno, se le piace potrà acquistarla". La curiosità faceva il resto. Uno di questi fotografi da strada lavorava sotto il pronao del Carlo Felice e veniva affiancato, a dicembre, da un figurante in costume da Babbo Natale, che attirava mamme e figlioletti. La ditta si chiamava "Foto Cineclair" e ne era titolare il signor Giugno, il quale aveva due figli, entrambi giornalisti stenografi, uno al "Secolo XIX" e l'altro al "Corriere della Sera". Lo stenografo del Decimonono, Giorgio, per aiutare il padre fotografo, indossava spesso il costume da Babbo Natale. Talvolta, però, dimenticando di essere travestito, quando passava un collega del giornale lo salutava e rivelava così la propria identità. Niente di male, ovviamente; tuttavia alcuni redattori un po' snob criticavano quel secondo lavoro, a loro dire ridicolo e disdicevole. Giorgio Giugno non se ne preoccupava, era una persona ingenua e solare, sempre dedita al bene, specialmente dei bambini. Il suo costante impegno fu premiato con la nomina ad ambasciatore dell'Unicef: stava benissimo in quei panni, ancor meglio che in quelli di Babbo Natale.

giovedì 3 febbraio 2011

Il quadro

Incontravo il vigile Tonietto, ormai in pensione, alla fiera genovese di Sant'Agata e nelle botteghe di rigattiere. Cercavamo quadri e spesso lui mi bruciava sul filo degli acquisti. Quando era ancora in servizio, Tonietto godeva di una popolarità indiscussa: dirigeva il traffico in piazza della Zecca muovendosi solennemente su una pedana di legno; la mole fisica, l'incerata antipioggia e i baffoni bianchi, a manubrio, lo facevano sembrare un monumento vivente. In casa sua, l'amico vigile aveva due cose che suscitavano la mia invidia: una pianola a rulli e un dipinto del Novecento che raffigurava lo studio di uno scultore. Avevo chiesto di acquistare quel quadro, ma la cifra da pagare -125mila lire - mi era sembrata eccessiva. La trattativa andò avanti a lungo, senza esito. Poi, un giorno, mi telefonò la moglie di Tonietto: "Mio marito, purtroppo, è mancato. Prima di morire mi ha detto: "Sai, quel quadro con lo studio da scultore, dàllo a Paglieri da parte mia". Per questo le ho telefonato". Ringraziai commosso, ma dissi che non mi sembrava giusto prendere il dipinto gratis; volevo pagarlo. "Certamente - mi rispose la signora- mio marito mi ha detto di farmi dare 125mila lire e di non farle sconti". Sborsai senza fiatare. Diavolo di un vigile, anche da moribondo era rimasto inflessibile come ai tempi in cui tirava fuori il blocchetto delle multe.

venerdì 28 gennaio 2011

Barzellette

Alle Medie la professoressa Rita Cerati Masi faceva lezione leggendoci, sul "Candido" di Guareschi, le rubriche "Visto da destra" e "Visto da sinistra": era un modo per alimentare in noi il libero giudizio sui fatti. La ricetta si può applicare oggi ai casi del Cavaliere, contrapponendo due vecchie barzellette. Visto da destra: una vecchietta telefona alla polizia: "Il mio dirimpettaio gira in casa nudo con le finestre spalancate!". La polizia accorre, scruta e obietta: "Ma signora, si vede solamente dalla cintola in su, c'è il davanzale!". "Si arrampichi sull'armadio e vedrà!" ribatte la vecchietta. Visto da sinistra: in treno, un viaggiatore, solo nello scompartimento, viene colto da un'incontenibile crisi intestinale. Apre un giornale sul pavimento, si libera e spinge il tutto sotto il sedile. Arriva un altro viaggiatore che si lamenta dell'odoraccio. "Io non sento niente" dice il furbacchione. Il nuovo arrivato non ci sta, scorge un lembo del giornale, lo tira e scopre il malloppo. "Ha visto?" esclama. E l'altro: "Eh, se dà retta a tutto quello che c'è sui giornali...". E' quasi inutile aggiungere che, nel caso specifico, la vecchietta sull'armadio rassomiglia alla Boccassini, mentre l'incontinente del treno è l'alter ego del "premier più amato del mondo". Quale delle due vecchie barzellette mi diverte di più? Nessuna, le cose ripetute mi annoiano.

sabato 22 gennaio 2011

Il palazzo

Mio genero, Renato Buratti, ingegnere edile, non sa darsi delle arie, ma realizza opere molto importanti: l'altro giorno mi ha invitato a fare una visita al palazzo che ha costruito (come direttore dei lavori) in piazza Sopranis, nel quartiere genovese di Dinegro. L'imponente bellezza dell'edificio mi ha sbalordito, se l'avessi visto senza saper niente della sua storia, avrei pensato di trovarmi di fronte a un'opera di Giuseppe Terragni, che fu il miglior architetto italiano nel periodo tra le due guerre mondiali. Tutta la piazza è stata rifatta in meglio, non è più lo spazio semi abbandonato nel quale mi spingevo, da ragazzo, per andare a curiosare in una vecchia fabbrica del ghiaccio: un sito magico, pieno di corsie mobili e di serpentine. Ora la fabbrica è sparita, ha lasciato il posto al nuovo palazzo. Le ho dato l'addio con un sonetto: "La fabbrica del ghiaccio era a Dinegro,/ riforniva le navi bananiere: / le liste s'inseguivano leggere/sui rulli, tra uno sgocciolare allegro./ Un blocchetto (fasciato nella lana/ per durare) bastava alla ghiacciaia/ fatta di legno e zinco. La massaia/ vi riponeva l'acqua di fontana/ resa frizzante con le due cartine./Rubando qualche scheggia di quel gelo/sognavo le granite smeraldine/ di Cornigliano, favola smarrita:/ sui bicchieri restava un freddo velo,/ ora ricopre questa nostra vita".

domenica 16 gennaio 2011

La Fiat

Quarant'anni fa, nel giugno del 1970, ero anch'io ai cancelli della Fiat Mirafiori durante una delle crisi cicliche del colosso. Inviato a Torino per una serie di articoli, avevo già preso contatto con le ali estreme del conflitto, il capo del personale dell'azienda e un leader di "Lotta Continua", il movimento che soffiava sul fuoco delle rivendicazioni. Due colloqui, due delusioni: il manager Fiat aveva preteso che all'intervista assistesse un testimone di sua fiducia, dicendo di temere che gli attribuissi frasi mai dette; nel campo avverso il "big" rivoluzionario mi aveva chiesto trentamila lire per una dichiarazione: in cambio del pagamento mi garantiva che non avrebbe fatto reclami qualora - come prevedeva - avessi stravolto il suo pensiero. Rifiutai e me ne andai. In conclusione, ero ai cancelli deluso e triste come un cane bagnato. Mi chiarì la situazione, con poche centrate parole, un operaio che usciva: "Guardi, se la Fiat fa un investimento, non lo fa certo per migliorare le mie condizioni di lavoro...". Era la certificazione di una disamore totale tra le parti. Ripensandoci, mi viene da collegare alle vicende di allora e di oggi una celebre frase di Gianni Agnelli: "Innamorarsi? E' roba da cameriere!". Così mi coglie un dubbio paradossale: ma gli Agnelli si saranno mai innamorati davvero delle loro fabbriche?

lunedì 10 gennaio 2011

Radetzky

La signora Vincenzi, sindaco di Genova, considera un oltraggio ai 150 anni dell'Unità d'Italia il fatto che, nel concerto di Capodanno al teatro Carlo Felice, si sia suonata la ben nota marcia di Radetzky, il maresciallo austriaco che fu accerrimo nemico dei patrioti milanesi. Io credo che, se si fosse fatto un sondaggio, la maggioranza degli entusiasti spettatori, interrogata sull'identità di Radetzky, avrebbe risposto "Ma è l'autore della marcia!". Ignoranza che giustifico, poiché io stesso non sentivo citare le repressioni di Radetzky da almeno mezzo secolo; da quando, cioè, il Risorgimento è stato messo nel limbo per far spazio ad argomenti dai risvolti più sociali: ad esempio le cannonate del generale Bava Beccaris contro i manifestanti milanesi del 1898. Nonostante i silenzi, io di Radetzky sapevo ugualmente tutto, grazie al mio quaderno "di bella" di quarta elementare: su una pagina di copertina erano infatti narrate le vicende delle Cinque giornate di Milano, con l'effimera vittoria dei patrioti seguita dal ritorno del bieco maresciallo. Il racconto era anche corredato da una poesia in dialetto milanese, della quale ricordo ancora i primi versi: "El Radeschi el se vantava/ de cognoss i Milanès/ ed inscì ridend el ne schersava/ co i sò Croàt, co i Ungherès..." Chissà chi l'aveva scritta: l'ho cercata invano su Internet.

martedì 4 gennaio 2011

Studenti

Giorgio Napolitano ha firmato la legge Gelmini che entra quindi in vigore: nonostante appelli, manifestazioni, scontri, scalate di tetti, digiuni, studenti e ricercatori nulla hanno ottenuto, neppure in fatto di visibilità; in una tale adunata di cervelli e di lauree, il solo personaggio venuto alla ribalta è stato un "pizzaiolo precario", munito di licenza media, che, forse per far fede al suo mestiere, ha dato una mostruosa "pizza" con il casco a un compagno di corteo, procurandogli un naso alla Bearzot. Mi viene in mente, certo per contrasto, la sola manifestazione studentesca alla quale io abbia partecipato. Era il 1953, Tito cercava d'impadronirsi di Trieste e il presidente del Consiglio Pella aveva inviato le nostre truppe al confine. Al liceo Colombo pensammo di fare un corteo di sostegno al governo e chiedemmo il permesso al preside (accidenti, come eravamo disciplinati!). Il professor Ciminiello ci ascoltò, paonazzo in volto:"Permesso? Io vi ordino di andare a manifestare! Io ho combattuto per Trieste nella prima guerra mondiale!". Partimmo giulivi, ma dopo cinquanta metri ci fermò un picchetto di portuali che impugnavano i ganci d'acciaio in uso per spostare le balle di cotone. Ci dissero seccamente: "Guerra per Trieste? Siete matti, non se ne parla! Tornate a scuola!". Cinque minuti dopo eravamo di nuovo nei banchi.