lunedì 27 giugno 2011

Bersani

Un sincero applauso a Bersani, che è venuto a Genova ad aggiornare la sua ormai famosa serie di "Non siamo mica..." scegliendo un modo di dire tipicamente ligure: "Non siamo mica qui ad asciugare gli scogli...". Se l'avesse detto in dialetto ("Nu semmo miga chi a sciugà i scoeggi!") avrebbe riscosso un'oceanica ovazione, ma non si può pretendere la parlata di Govi da un piacentino come lui. Certo, Bersani è venuto proprio nella patria del "Non siamo mica...", perché i genovesi ormai da secoli celano la loro vera essenza dietro le cortine fumogene delle allusioni. Se andiamo nell'alta cultura, ecco Montale: "Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo e ciò che non vogliamo". Poi, passando alla saggezza popolare, ecco il "Boa", Luigi Bianchi, che era più reciso nelle immagini: "Non siamo mica qui a fare impacchi su una gamba di legno!" oppure "Non siamo mica qui a pestare l'acqua nel mortaio!". Altri cento di questi "Non siamo" si nascondono nelle pagine di un bel libro ("Pe moddo de dì", cioè per modo di dire) che scrissero insieme Nelio e Ivana Ferrando: ne colgo qualcuno al volo: "Non siamo mica qui a legare i cani con le salsicce!", "Non siamo mica qui a farci bruciare gli occhi dalle cipolle degli altri!", "Non siamo mica qui a vantarci del sole di luglio!". Troviamone altri, è un bel gioco.

martedì 21 giugno 2011

Alfredino

Nel suo ultimo libro Walter Veltroni scrive a lungo di Alfredino, il bimbo che nel 1981 cadde nel cunicolo di un pozzo artesiano e, nonostante gli sforzi dei soccorritori, non poté essere salvato. Fu una tragedia amplificata dalla diretta televisiva. Quella notte ero responsabile delle "ribattute" del giornale, cioè dei rifacimenti delle pagine in occasione di eventi straordinari. In quei casi, ogni minuto di ritardo voleva dire migliaia di copie in meno per la vendita. Seguii la vicenda sul video e quando seppi che un eroico volontario aveva raggiunto il bambino a 36 metri di profondità, in un inferno di buio e di fango, mi precipitai in tipografia per organizzare la ribattuta. Riuscii a staccare dal televisore un paio di compositori e di impaginatori e mi misi a scrivere a mano poche righe per annunciare il lieto fine della sconvolgente vicenda. Dissi a un tipografo di preparare il titolo: "E' salvo!", con tanto di punto esclamativo. Mi rispose che non aveva i caratteri adatti per comporre un titolo così breve e allora lo raddoppiai: "E' salvo, è salvo!". Mentre lavoravo m'immaginavo il bambino che stava risalendo dal ventre della terra, come per una sua seconda nascita. La speranza durò pochi minuti, poi la tv disse che il tentativo era fallito e che non c'era più niente da fare. Il titolo rimase sul bancone, non ebbi cuore di gettarlo via.

mercoledì 15 giugno 2011

I tombini

L'acqua "privatizzata", bocciata dai referendum, non sarebbe stata un grande choc per Genova, che già in passato si era adattata a questa condizione. Prima che il sindaco Pertusio realizzasse, negli anni Cinquanta, il grande bacino del Brugneto, la nostra città poteva dissetarsi, compiere le abluzioni, fare il bucato e spegnere gli incendi solamente perché veniva rifornita da due acquedotti privati, il Nicolai e il De Ferrari Galliera. L'importanza di queste due strutture idriche è testimoniata dal gran numero di tombini di ghisa che costellano il selciato della città in corrispondenza delle prese d'acqua e delle ripartizioni: su queste migliaia di piastre ormai annose (alcune portano ancora l'emblema del fascio) spiccano le scritte "Acqua Nicolai" oppure "Acquedotto DFG": il De Ferrari Galliera, appunto. Un giovane amico della mia famiglia, il dottor Janin, si era dedicato, anni fa, a una catalogazione sistematica dei tombini genovesi; ne era venuta fuori una storia minore della città assai affine agli studi di un altro nostro amico, il professor Tiziano Mannoni, famoso per aver teorizzato l'esistenza di una "cultura materiale" capace di affiancare (e talvolta di smentire) la cultura di tipo classico. Andando a passeggio, val davvero la pena di dare, ogni tanto, un'occhiata ai tombini. Anche loro sono pagine di storia.

giovedì 9 giugno 2011

Il sindaco

Conoscevo bene Fulvio Cerofolini, sindaco di Genova tra il '75 e l'85, deceduto pochi giorni fa. Possedeva la giusta ambizione di chi era venuto su dal nulla o poco più. Aveva cominciato a lavorare come bigliettario sui tram; uno dei suoi due fratelli faceva il custode di un museo genovese, l'altro era operaio. Il custode e l'operaio non avevano fatto carriera, lui, invece, si era messo nel sindacato ed aveva scalato la gerarchia politica fino a divenire vicesindaco (socialista) nella giunta guidata dal democristiano Piombino. Giunto a quel punto, Cerofolini fece il ribaltone e portò via il posto a Piombino, formando una giunta di sinistra e districandosi bene tra le alchimie del potere. Non gli mancava l'intelligenza, sorretta da una cultura conquistata da autodidatta. Era nato a Genova da madre genovese, ma suo padre veniva da Arezzo, una zona dove i Cerofolini abbondano. Quell'ascendenza mi pareva curiosa: dall'Aretino, esattamente da Cortona, proveniva infatti anche Vannuccio Faralli, primo sindaco di Genova dopo la Liberazione. Troppi due sindaci nostrani con radici nella stessa lontana terra: difficile pensare a un caso, forse c'era una parentela, o un'amicizia tra compaesani rivelatasi preziosa per i primi passi politici di Cerofolini. Ho cercato invano lumi nei necrologi. Aspetterò la biografia.

venerdì 3 giugno 2011

Il sogno

Giovanni Giudici era al "top" tra i poeti italiani, pubblicava versi da Mondadori, non so se mi spiego. Viveva alle Grazie, un borgo marinaro presso La Spezia. Se n'è andato l'altro giorno, a 86 anni. Lo conoscevo in modo indiretto, faceva parte di un trio immaginario che dava un po' d'incanto alle notti passate al giornale, in attesa della seconda edizione da curare con nuove notizie, correzioni e aggiornamenti. In quelle ore il mio capocronista, Pietro Ferro, anche lui delle Grazie e cugino del poeta, ci raccontava i suoi progetti per il tempo della pensione, non molto lontano: "Il mio amico Baraca mi ha tirato a lucido la barca; le reti e il bolentino sono a posto. Andremo a sàraghi e a occhiate, lasceremo perdere le acciughe. E porteremo con noi Giovanni Giudici con un buon libro. Ve l'immaginate, una lettura dantesca con il sole a picco sul canale della Palmaria, di fronte a Portovenere, con Lerici laggiù e il Tino un po' nascosto...". Socchiudevamo gli occhi e ci immaginavamo anche noi nel Golfo dei Poeti, magari a recitare: "Guido i' vorrei che tu, Lapo ed io...". Poi, una sera, Pietro, con le lacrime agli occhi, mormorò: "Baraca è morto. Il sogno è finito". Forse anche per questo non durò molto, dopo la pensione. Ora è scomparso pure Giudici. Ma la Palmaria è là, a far nascere altri sogni.