venerdì 30 dicembre 2011

Cartoline

Chi desidera rivedere i luoghi importanti della propria vita senza muoversi da casa può farlo collegandosi a ebay e chiedendo "Cartoline di...". La sfilata d'immagini è sempre abbondante e può riservare anche sorprese: magari una propria cartolina, finita chissà come nel commercio on-line. Gustata l'emozione d'un rinnovato incontro con una piazza o una stazione ferroviaria, si finisce per dare un'occhiata ai prezzi delle immagini offerte. Qui si scopre che la definizione "animata" fa salire vertiginosamente i costi. "Animata" significa che in quella cartolina non c'è solamente il monumento tale o il teatro talaltro, ma è fissata anche l'immagine di gente che passa, che sosta, che sfila su auto ormai d'epoca o su carrozze a cavalli. Evidentemente l'"animazione" testimonia un attimo specifico dell'esistenza immutabile del monumento o del teatro e fa lievitare i prezzi. E' un po' una rivincita di noi, esseri mortali, sulla teorica immortalità di ciò che è inanimato: "Voi - sembriamo dire alle "cose"- potreste, per vostra natura, durare secoli e secoli, all'infinito, ma chi vi dà senso e valore siamo noi, vite in transito non soltanto viario". E' un tema che avrebbe potuto intrigare Giorgio Morandi, il celebre pittore delle bottiglie impolverate, ma i suoi quadri non sono mai "animati". Non c'è neppure una mosca.

sabato 24 dicembre 2011

Algoritmi

Da quando trasmettono il telefilm "Numbers", tratto gli algoritmi come parenti stretti, pur non avendo la minima idea di che cosa siano. Ho quindi appreso senza meraviglia, dal "Corriere", che un certo Rory McCann è riuscito, con un algoritmo, a risolvere il cosiddetto "rompicapo di Joyce" eternato in una pagina dell'"Ulisse". Il protagonista del romanzo, Leopold Blum, si chiedeva se fosse possibile attraversare Dublino senza imbattersi in un "pub": ebbene, l'algoritmo, opportunamente nutrito di dati, ha impiegato un solo quarto d'ora per trovare il percorso adatto a risolvere il rompicapo. La scienza fa miracoli; tuttavia, se è lecito passare dalla nobile prosa dell'"Ulisse" alla più modesta delle cronache del passato, sarà il caso di rivelare che, a Genova, un rompicapo simile a quello di Joyce era stato risolto fin dall'inizio del secolo scorso, senza necessità di ricorrere agli algoritmi: bighelloni e sfaccendati avevano infatti individuato un itinerario che permetteva di attraversare la città senza imbattersi in osterie: quel tragitto si chiamava "il giro dei misci" e dava modo, a chi non aveva un centesimo in tasca, di passeggiare sottraendosi a inutili tentazioni e amari rimpianti. Quel "giro" oggi non è più d'attualità: non perché siamo diventati meno poveri, ma perché a Genova sono sparite le osterie.

domenica 18 dicembre 2011

Miroslao

Il primo clandestino che ho conosciuto si chiamava Miroslao, originario di Tolmino, un paese italiano passato alla Jugoslavia nel '45. Miro era clandestino nel senso che poteva vivere ma non lavorare in Italia: dichiarato apolide (cioè senza patria) doveva campare esclusivamente con il misero sussidio erogato da un ente internazionale. Naturalmente si dava da fare lo stesso, in nero e sotto falso nome. Così ci conoscemmo in una colonia estiva, io assistente dei ragazzi, lui addetto alle pulizie. Lo reincontrai trent'anni dopo, ormai vecchio e mal ridotto: mi raccontò che viveva della carità dei vicini di casa, in un tugurio del centro storico. "E il sussidio?". "Sparito!". Era successo questo: dopo decenni di vita da apolide, Miro, convocato in questura, si era sentito chiedere se avesse prestato servizio nel regio esercito. Alla risposta affermativa, il funzionario aveva esclamato: "Ma allora lei ha diritto alla cittadinanza italiana, facciamo subito la pratica!". Il riconoscimento, arrivato rapidamente, aveva avuto il solo effetto di provocare la revoca del sussidio dovuto agli apolidi. Ed ecco il resto della storia di Miro: ricoverato per gli stenti, il mio amico subì un avveniristico intervento chirurgico di sostituzione aortica. Sospettai che l'avessero usato come cavia umana. Sopravvisse da invalido, ma non per molto.

lunedì 12 dicembre 2011

Vilipendio

Nel 1965 il presidente Saragat andò in visita in Argentina. In prima edizione pubblicammo la foto di un capo tribù della Patagonia, poi arrivò una telefoto del Presidente che aveva accanto (nientemeno) l'editore del Decimonono Sandrino Perrone. Il cambio d'immagine era d'obbligo: il fotoincisore Ceriale preparò i cliché da consegnare in rotativa e la tipografia mise in pagina la nuova didascalia. Qualcosa non funzionò: sta di fatto che la mattina dopo i genovesi trovarono sul Decimonono la vecchia foto e la nuova didascalia; in sostanza, un "Saragat" scuro di pelle e con le penne di gallina in testa. In Procura si allarmarono, il procuratore capo Grisolia chiamò un brigadiere e gli ordinò: "Vada al Secolo e porti qui il più alto in grado". Avevano poco da scegliere, a quell'ora al giornale c'ero solamente io che facevo il segretario di redazione. Grisolia mi accolse con uno sguardo minaccioso, poi a poco a poco si calmò e finì per ridere quando gli raccontai che l'incaricato di cambiare i cliché era un operaio sordomuto dal quale era difficile farsi capire. Dunque, un involontario errore, al quale stavamo rimediando ritirando dalle edicole le copie errate. "Bene, bene - concluse Grisolia - però facciamo un verbalino. Sa, anch'io devo coprirmi...!". Così finii schedato per sospetto vilipendio di Saragat.

martedì 6 dicembre 2011

Aviatori

Ho già raccontato che, da ragazzo, ero tifoso del grande Torino, quello che perì nella sciagura di Superga. Nel settembre 1949 andai a a visitare il luogo della tragedia, avvenuta quattro mesi prima. C'era ancora un gran buco nel basamento della basilica, nel punto in cui l'aereo si era schiantato. Mi accompagnava mio cugino Aurelio Pavesi; dopo il pellegrinaggio, mi portò in auto all'aeroporto di Caselle, dove stava per partire un piccolo monomotore, un "Bonanza", diretto negli Usa con un volo da record. Era da poco riuscita l'impresa di Bonzi e Lualdi con l'"Angelo dei bimbi", cosicché il nuovo tentativo non sembrava folle, nonostante la stagione avversa. Quando arrivammo, i piloti, due biellesi che si chiamavano Brondello e Barioglio, stavano conversando amabilmente con la piccola folla che li circondava. Uno di loro indossava pantaloni chiari e scarpe bianche, come se si accingesse a giocare a tennis. Poco dopo l'aereo decollò. Seguii il resto dell'avventura attraverso i giornali: un atterraggio di fortuna alle Azzorre, la decisione di giocare il tutto per tutto, il grande balzo sull'Atlantico, un messaggio, "Hello America!", lanciato dal Bonanza in vista di New York. Poi un tragico silenzio. Ogni tanto ripenso a quelle scarpe bianche, forse erano un modo di gettare il cuore oltre l'ostacolo.