giovedì 10 maggio 2012

Mohammed

Quando l'Italia fu sconfitta in Africa Orientale, gli equipaggi di cinque cacciatorpediniere che si trovavano nel porto di Massaua salparono le ancore, pur sapendo di essere ormai intrappolati nel Mar Rosso. Tre di quei caccia scelsero l'autoaffondamento, due si lanciarono invece in un attacco suicida contro Port Sudan, all'estremità meridionale del Canale di Suez. L'aviazione inglese li intercettò e li distrusse. Rimase, in mezzo al mare, una lancia stracarica di sessanta superstiti, con l'acqua che sfiorava i bordi. Fuori, aggrappato come poteva, c'era un sessantunesimo naufrago, un marinaio eritreo che si chiamava Ibrahim Farag Mohammed: riuscì a resistere tutta la notte, rifiutando le offerte di cambio che gli facevano i compagni di sventura; al mattino, ormai stremato, salutò il comandante e se ne andò a nuoto, a morire da solo. Gli altri si salvarono e poterono raccontare quel che era accaduto: Mohammed ebbe la medaglia d'oro alla memoria. Quando mi capita di rileggere questa storia mi faccio mille domande sul naufrago solitario: che cosa c'era in lui? Eroismo, orgoglio personale, fierezza tribale, spirito di solidarietà, fatalismo o soltanto disperazione? La risposta è in fondo al mare.

Nessun commento: