mercoledì 29 dicembre 2010

Fermo posta

Dieci giorni fa ero a un funerale in una chiesa di via Bobbio e ho notato che il parroco aveva allestito un albero di Natale a lato dell'altare. Sono rimasto sorpreso, ma non troppo: proprio il giorno prima, infatti, un mio conoscente, accanitamente laico, mi aveva confidato di preparare il presepe domestico. Evidentemente c'è stato uno scambio di simboli. Il funerale dell'altro giorno era d'un amico di sessant'anni fa, Franco, al quale dovevo quell'atto di presenza: mi aveva aiutato in un'epoca in cui i messaggini telefonici erano di là da venire e gli innamorati rischiavano di perdere i contatti. Dunque, io avevo una ragazza che d'estate se ne stava in campagna ed era sorvegliata da un'arcigna zia: le davo mie notizie inviandole banali lettere con una falsa firma femminile e aggiungendo nei margini bianchi le mie promesse di amore eterno scritte con il succo di limone. La ragazza rendeva poi visibili quelle frasi con il calore d'un insospettabile ferro da stiro. Per la risposta ci voleva un altro inghippo, perché la cassetta della posta era sotto controllo di mia madre, contrarissima al flirt. E qui entrava in azione Franco che, essendo già maggiorenne, poteva usufruire del fermo posta: con pazienza faceva l'immancabile coda e mi recapitava il sospirato plico. Per questo sono andato a ringraziarlo, anche sessant'anni dopo.

giovedì 23 dicembre 2010

Cornamuse

Qualcosa di natalizio ci vuole e anche qualcosa in dialetto, visto che gli spot per i 150 anni dell'Unità d'Italia hanno una certa aria di superiorità rispetto agli idiomi popolari. Nel 1932 fu pubblicato a Genova un volume, intitolato "Cetre e cornamuse", che raccoglieva tante poesie inedite, in italiano e in dialetto, scritte per le feste di Natale: quasi tutti componimenti che, riletti oggi, non reggono alla verifica del tempo. Si salvano solamente, a mio parere, due poesie di Edoardo Firpo, certamente il migliore tra gli scrittori dialettali genovesi. Eccone un brano: "O l'è un figgieu piccin o Bambinetto/ comme se vedde sempre i ti geuxiu/ coi euggi dosci e ciaei/ che pan due gosse cheite da un rammetto./Basta un pittin che o pie/ perché a Madonna subito a l'ammie;/ se poi o fa o sappin/ a-o ballezza, a ghe canta un pittinin/ e le o ghe rie./ L'è o cianze di figgieu comme a rosà/ che basta un po' de so e a l'è sciugà". Traduco pedestremente: "Il Bambinetto è piccolo piccolo, come si vede sempre nei santini, con gli occhi dolci e chiari che sembrano due gocce cadute da un rametto. Basta che faccia un piccolo verso che la Madonna subito lo scruta, se poi fa il broncio lo fa saltare e canticchia; e lui ride. Il pianto dei bimbi è come la rugiada, basta un po' di sole e si asciuga". Grande Firpo, come sempre.

venerdì 17 dicembre 2010

Quel nome

Ritornando a Monicelli e al suo film sul Medioevo ambientato nella Maremma laziale, occorre aggiungere che il regista azzeccò in pieno anche il "battesimo" del protagonista: "Lo meo nome est Brancaleone da Norcia!" declamava Gassman in latino maccheronico; e mai denominazione poté riempire di più la bocca d'uno scalcinato cavaliere. Era come il "laonde" caro ai bolognesi. Di dove fosse venuto quel nome non si sa, ma io ho un' idea in proposito. Negli anni Sessanta, quando fu progettato e girato il film, operava tra Vulci e Tarquinia un tal geometra Franco Brancaleoni, milanese, intento a sperimentare, per conto della fondazione Lerici, nuovi metodi di ricerca archeologica. L'attrezzatissimo tecnico misurava la "resistività del terreno", lanciando onde elettriche lungo una fila di picchetti piantati nel suolo: le anomalie nei grafici ricavati indicavano muri sepolti. Altro strumento di Brancaleoni era un periscopio rovesciato, che s'infilava nei fori praticati da una trivella e permetteva di esplorare le tombe etrusche senza scavarle. A Tarquinia ne furono controllate a migliaia e scoperte parecchie di quelle dipinte. Sul posto i curiosi non mancavano mai e penso che anche la "troupe" del film fosse della partita. Insomma, forse Brancaleone, in origine, era un geometra-archeologo meneghino.

sabato 11 dicembre 2010

Croce Rossa

Domenica scorsa "Report" di Milena Gabanelli ha "sparato" sulla Croce Rossa presentandola come un carrozzone dalle attività poco limpide. Non so se darle ragione o torto, le mie informazioni sul tema risalgono all'inizio del secolo scorso, quando mio nonno paterno, Filippo, capitano revisore della CRI, passò i guai suoi per far fronte agli impegni assistenziali dovuti alla guerra '15-'18. In quel periodo il capitano Filippo doveva amministrare l'ospedale militare di Tortona senza tralasciare però i suoi compiti di professore di matematica e scienze in un istituto tecnico. Il tutto si risolveva in affannose corse tra scuola e ospedale. Per lui non c'era comprensione: il giornale della Curia trovava ogni pretesto per criticare la sua gestione della CRI, il preside dell'istituto l'attendeva sul portone con l'orologio in mano e gli faceva rapporto a ogni ritardo. Se la cavò a stento finché durò la guerra, poi il ritorno della pace cancellò ogni remora, anche se l'ospedale continuava a ospitare feriti. Così il ritardatario professor Filippo fu trasferito per punizione a Bobbio. Ripeto, non so se la Gabanelli abbia torto o ragione, posso solamente dire, per esperienza familiare, che l'usanza di "sparare" sulla Croce Rossa ha radici antiche, almeno quanto le spalline di mio nonno, dorate e con la croce a smalto, che conservo religiosamente.

domenica 5 dicembre 2010

Brancaleone

"L'ultimo ciak di Monicelli": è uno dei titoli che ho visto, la sera delle tragedia, nella rassegna stampa del Tg3. Ho pensato istintivamente al Perozzi, il cinico giornalista di "Amici miei" interpretato da Philippe Noiret. Lui l'avrebbe fatto, quel titolo, proprio per evocare lo schianto di un corpo sul selciato. Anzi, ci avrebbe aggiunto una esse ("sciak") e Monicelli se ne sarebbe rallegrato, da quel cultore dell'umor perfido che era. Grande regista, Monicelli, autore di film che nascevano da una meticolosa preparazione. "L'armata Brancaleone" è del 1966, ma io posso testimoniare che già nel '61 la squinternata avventura era in cantiere. Una mattina di quell'anno, uscendo dal portone del castello di Vulci, dove avevo il mio covo d'archeologo, mi ero quasi scontrato con un uomo, ricoperto da una corazza, che gesticolava con una lancia davanti a un tizio munito di macchina fotografica. Chiesti chiarimenti. i due mi dissero che stavano facendo prove di scena in vista di un film sul Medioevo. Spiegarono che il castello, nerastro e sbrecciato, era uno sfondo ideale; il vicino ponte romano, poi, una meraviglia. Cinque anni dopo, ritornato a Genova, andai a vedere "L'armata Brancaleone" e ritrovai sullo schermo ponte e castello. Riconobbi anche il figurante di allora, la sua mandibola aveva una lunghezza inconfondibile.

lunedì 29 novembre 2010

Gastronomia

La ragazza incrociata per strada sta, naturalmente, telefonando. Proprio nel momento del mio transito conclude la comunicazione dicendo: "Ci sentiamo poi, cotto e mangiato". Probabilmente voleva dire "dopo cena", o forse "ti saluto". Dunque, anche la clausola finale della rubrica gastronomica di Benedetta Parodi su Italia uno ha fatto danni alla lingua italiana. L'unica consolazione è che il nuovo slogan durerà quanto il programma, non di più; e i piatti illustrabili non sono infiniti. L'altro giorno l'avvenente cuoca era già arrivata alla bistecca alla griglia, segno di una fantasia in calo. Non posso correre in suo soccorso perché molte delle vecchie ricette che ricordo io sono ancor più banali: da bambino la merenda offriva la scelta tra pane burro e zucchero oppure pane olio e sale; a cena capitava spesso l'uovo à la coque, appena bollito e poi decapitato per ospitare il sale e molte striscioline di pane da ripescare con un cucchiaino da caffè. Quando l'uovo era sicuramente fresco, la ricetta si semplificava ulteriormente: si prendeva un ago da lana (di quelli con la cruna larga) si facevano due buchi nel guscio, uno sopra e uno sotto e poi via a succhiare: prima arrivava in bocca il bianco, poi, delizioso, il tuorlo. Niente, quindi, di adatto alla signora Benedetta. E poi, un uovo di giornata, dove lo troviamo?

martedì 23 novembre 2010

Vignettisti

La vignetta quotidiana è l'ammazzacaffè del giornale. Sotto il profilo politico l'autore deve essere in sintonia con il direttore del momento, ma può anche deviare un po' dalla rotta se la battuta è particolarmente felice. Fisicamente, i vignettisti si assomigliano un po' tutti: hanno espressioni da funerale, come se il prodotto del loro ingegno fosse una sanguisuga di buonumore. Il solo autore che abbia visto ridere mentre lavorava si chiamava Rino d'Anna e fu per molti anni illustratore del Decimonono. Dopo di lui vennero i fratelli Origone, detti "il braccio e la mente". Uno trovava la battuta, l'altro la sceneggiava. Talvolta si mettevano all'opera in redazione: il "pensatore" si aggirava con la faccia feroce e le mani dietro alla schiena; l'altro, serafico, preparava con la matita il fumetto ancora in bianco. Erano la mia consolazione, mai un ritardo nella consegna. Tutt'altra musica con Vauro che, nel breve periodo della sua collaborazione, fu per noi un vero incubo. Ogni sera occorreva fargli due o tre telefonate per sollecitarlo e la risposta era sempre la stessa: "Che vuoi che m'importi, io devo pensare...!". Quando lo vedo arrivare da Santoro con una ventina di vignette, fresche di giornata e fulminanti, mi chiedo se allora ci prendesse in giro o se, adesso, sia stato Berlusconi a scatenargli la vena umoristica.

mercoledì 17 novembre 2010

Il dilemma

Alla fine, anche gli studiosi spagnoli hanno alzato bandiera bianca, riconoscendo che Cristoforo Colombo era genovese. Adesso ci sarebbe un'altra battaglia da condurre, rimuovere dalle spalle dell'Ammiraglio l'accusa d'aver importato in Europa la sifilide. Di questa diceria si era fatto portavoce, nel 1919, anche il poeta Olindo Guerrini, autore, con Corrado Ricci, di un curioso libretto, il "Giobbe". Scriveva dunque il Guerrini: "Ahi, Genovese improvvido, / che delle ispane navi / le prue sull'onde incognite / dell'Oceàn guidavi / e de le strane Americhe / aprivi il reo cammino / a Florio, Rubattino / ed altre società, / non sai di quanti spasimi / crebbe l'uman dolore / poi che recasti il tossico / che ci guastò l'amore? / Non sai che notti orribili / passiam, che giorni grami / e che bevande infami / il medico ci dà? ..." . Ai giorni nostri ci sono buone probabilità di assolvere Colombo dalla pesante accusa: a Kingston-upon-Hull, in Inghilterra, sono state trovati scheletri con evidenti segni del morbo e il radiocarbonio li ha datati al 1340. E' un successo, ma anche un mezzo guaio: poiché l'origine della malattia al di là dell'Atlantico sembra indubbia, quegli stessi scheletri dimostrerebbero che qualcuno aveva fatto la traversata prima di Colombo. Genova sarà dunque nel dilemma: accollarsi la sifilide o perdere la scoperta dell'America?

giovedì 11 novembre 2010

Broccolino

Ai tempi della direzione di Michele Tito, il Decimonono riceveva articoli dagli Stati Uniti scritti da una giovane giornalista italiana della quale non ricordo in questo momento il nome ( ma mi verrà). I contenuti erano interessanti, la forma lasciava a desiderare: si capiva che l'autrice era impegnata, per il momento, a imparare bene l'inglese, talvolta a scapito della lingua madre. Avevo i miei problemi nel raddrizzare quegli articoli e un giorno, quando la fanciulla mi telefonò per sapere se andava tutto bene, glielo dissi fuori dai denti: " I tuoi pezzi sarebbero ottimi se non fossero scritti in Broccolino...". Mi aspettavo una risata, invece l'interlocutrice la prese male: borbottò "Come ti permetti!" e buttò giù la cornetta. Lì finirono i contatti, ma l'italiano degli articoli migliorò. Tornata in Italia, la nostra giovane corrispondente venne in visita alla redazione: era una ragazzina smilza e giocosa, che amava sedersi sulle scrivanie. Girò alla larga solamente dalla mia, evidentemente se l'era fatta indicare a scanso di spiacevoli discussioni sul suo stile di scrittrice. Me ne feci una ragione e seguii poi, su altre testate e in Tv, la progressiva carriera della collega. Sembrava proprio che nessun traguardo le fosse precluso e così è stato. Unica variazione, adesso non ha più una figuretta smilza. Ah, ecco il nome: Lucia Annunziata.

venerdì 5 novembre 2010

Benito

No, non è quello che pensate. Per noi del "Decimonono" Benito era il collega più geniale; un grande, simpatico guascone. Di cognome faceva Bragone, ma lui i cognomi non li usava mai, non facevano parte delle sue tattiche. Espertissimo del settore marittimo, andava alle cerimonie (soprattutto al varo delle navi) e attaccava bottone con il potente ospite di turno: "Naturalmente ci diamo del tu" gli diceva. E poi: "Senti, Giovanni (o Francesco), se mi capitasse una notizia che ti riguarda, come faccio a controllarla, dove ti trovo?". Ritornava con il numero telefonico diretto del personaggio, il quale si sarebbe sentito chiamare quasi ogni giorno: "Ciao, Giovanni, sono Benito...". In questo modo Bragone aveva sempre notizie di prima mano e dava terribili "buchi" ai giornali concorrenti. Nel tempo libero, Benito aveva un hobby, versare sale nelle piaghe degli invidiosi accreditandosi capitali e profitti del tutto esagerati. Ancora sulla breccia del giornalismo, se n'è andato l'altro giorno, a 83 anni. Quando l'ho saputo, ho pensato quasi subito al suo taccuino custodito gelosamente, pieno di nomi importanti e di numeri telefonici riservati. Dati che non invecchieranno, perché, nel mondo del mare, al timone ci sono sempre gli stessi. "Vuoi vedere - mi sono detto - che quel notes farà la fine misteriosa dell'agenda di Borsellino?".

sabato 30 ottobre 2010

Matrimoni

Finalmente si sta facendo qualcosa per impedire i matrimoni a pagamento che permettono di entrare in Italia con tanto di cittadinanza. Un imbroglio messo in atto, particolarmente, dalle donne dell'America Latina. Anni fa mi capitò di essere complice involontario di uno di questi sposalizi con il trucco. Conoscevo un raccoglitore di anticaglie al quale ero grato perché, frugando in un cassonetto della spazzatura, aveva recuperato delle rare fotografie dello scultore Baroni e me le aveva vendute. Quando pubblicai la biografia dell'artista, non dimenticai di ringraziare nelle note il fortunato ritrovatore e gli regalai alcune copie del volume. Un giorno l'uomo mi disse: "Sa, mi sono sposato in Centroamerica". Annusai l'imbroglio e insinuai: "Immagino che la prima notte di nozze l'abbia trascorsa senza moglie, ma con un bel pacco di dollari...". "Proprio così" mi rispose. "Ma - obiettai -le autorità italiane del posto non le hanno fatto delle difficoltà?". "Sicuro, ma io, per dimostrare di essere una persona importante e per bene, ho aperto davanti al console il suo libro su Baroni e gli ho detto "Legga qui, un illustre studioso mi ringrazia...". Il console si è convinto e mi ha dato il nulla osta". "E' bastato quello?"."Beh, avevo anche un vestito nuovo, me l'ha comprato la mia cara sposa". "Mai più vista, eh?". "Già".

sabato 23 ottobre 2010

Mannoni

Una settimana fa è morto Tiziano Mannoni, genovese, uno dei massimi archeologi italiani. Lo conoscevo da oltre mezzo secolo, da quando la sua figura altissima e allampanata si affacciò all'Istituto di Studi Liguri per chiedere di consultare delle riviste. Lui era appena agli inizi di un percorso che lo portò a creare una nuova figura di ricercatore, l'archeologo di formazione scientifica. Fino ad allora l'archeologia era stata un territorio riservato agli umanisti, gente che sapeva di latino e di greco, studiava storia dell'arte antica e, in giacca e cravatta, dirigeva il piccone degli operai sulle antiche vestigia. Con Mannoni cambiò tutto, l'archeologo si mise la tuta e imbracciò la cazzuola, dimenticò "rosa rosae" se mai l'aveva studiata, si affidò al microscopio, alla conta dei cerchi nei tronchi d'albero, all'esame chimico delle calcine, alla classificazione delle forme dei mattoni. Amici da sempre, polemizzavamo sorridendo: lui mi squadernava sotto il naso i risultati ottenuti, io gli dicevo che l'antichità è una bella donna da amare, non da sottoporre ad autopsia. Ha vinto lui perché era in linea con i tempi, che vedono Giulio Cesare in calo rispetto alle storie minime dei popolani del Medioevo. Adesso temo che l'amico Tiziano si troverà a disagio in Paradiso. Lassù è tutto una nuvola, non c'è terra da scavare.

domenica 17 ottobre 2010

Psichiatria

A Silvano d'Orba, paese dove oltre trent'anni fa possedevo una casa da villeggiatura, un giovane uomo ha strangolato la moglie, poi è andato a prendere un caffé e infine si è costituito dicendo "Non so perché l'ho fatto". Guardando sul giornale le foto della strada del delitto, mi è sembrato di riconoscere un doppio cancello dietro al quale abitava, ai miei tempi, uno strano personaggio che la gente schivava se poteva. Reduce da un lunghissimo soggiorno in manicomio ( allora si chiamava ancora così) l'omino in questione era stato rispedito al paese munito di un certificato di sanità mentale da esibire al sindaco. Riammesso "ope legis" a circolare per Silvano, l'eccentrico personaggio trascorreva il suo tempo fermando in strada i compaesani e formulando questa imperativa domanda: "Tu ce l'hai il certificato di sanità mentale?". Alla risposta negativa l'ex alienato replicava trionfante: "Ecco, lo vedi, se non ce l'hai vuol dire che sei pazzo. Sei pericoloso, fatti ricoverare!". Tutta questa messa in scena, che si rinnovava quotidianamente, era stata riassunta dalla saggezza popolare in un soprannome: "il sano di mente". E' del tutto possibile che un giorno anche l'uxoricida di Silvano ritorni al paese esibendo un certificato di sanità mentale. Sempre che la rivoluzione di Basaglia non abbia abolito questo tipo di attestato.

lunedì 11 ottobre 2010

La Julia

Ci sono nomi che ti colpiscono alla bocca dello stomaco e ti riportano a dolori antichi. Così è stato per me quando ho sentito citare in televisione la divisione Julia, il corpo al quale appartenevano i quattro alpini uccisi in Afghanistan. Era della Julia anche Riccardo Pessagno, mio vicino di casa a Chiavari ai tempi della seconda guerra mondiale. Eravamo amici con Riccardo, anche se lui aveva una decina d'anni più di me. Come tutti gli studenti universitari chiamati alle armi aveva ricevuto la nomina a sottotenente di complemento. Lo vidi in divisa, con il cappello da alpino, pochi giorni prima che partisse per la Russia, nel 1942. Mi strizzò l'occhio come al solito, era il suo modo di salutarmi. Non lo rividi più. Sapemmo poi che era caduto a Nikolajewka, nella famosa battaglia del sottopassaggio ferroviario, insieme a migliaia di altri soldati italiani in ritirata. I superstiti raccontarono che l'accerchiamento totale di 40mila alpini, realizzato dalle armate sovietiche, era stato rotto con un'epica carica a piedi guidata, a costo della vita, dal generale Reverberi. Molti anni dopo, passando da Arzeno, un piccolo paese dell'entroterra chiavarese, entrai nel cimitero e vi trovai una tomba con il nome del mio amico. Era una tomba vuota, che la madre di Riccardo aveva fatto costruire per sentirsi meno sola nel loculo accanto.

martedì 5 ottobre 2010

Cisnetto

L'altra sera, in Tv, ho rivisto Enrico Cisnetto: elegante, disinvolto, spiritoso, distillava con nonchalance giudizi e previsioni. Adesso ha 55 anni ed è uno dei giornalisti italiani più in vista nel settore dell'economia. D'estate organizza, con la moglie, i famosi convegni di "Cortina incontra", che hanno finora mobilitato seicentomila spettatori. E' stato direttore di parecchie testate, ha fatto messe di premi ed è tanto potente ed autonomo da non aver bisogno di uno stipendio mensile: la sua nota autobiografica lo definisce "editorialista economico ed opinion leader". Nientemeno. Se non l'avessi riconosciuto sul video, avrei pensato a un caso di omonimia: il Cisnetto che ricordavo io era un giovanotto un po' spelacchiato e abbastanza imbranato che circa trent'anni fa faceva i primi passi nella redazione economica del "Secolo XIX". Non aveva affatto propensione per le pubbliche relazioni, almeno con i colleghi: respingeva, arruffandosi come un riccio, gli approcci che toccavano ad ogni neofita, a metà tra un nonnismo all'acqua di rose e un tentativo d'instaurare rapporti camerateschi. Neppure l'invadenza di Nino Cavassa, impenitente strizzatore d'attributi, riusciva a farlo uscire dal suo brontolìo: "Non ho tempo per voi - diceva - io ho una meta da raggiungere". Che stesse già pensando a Cortina d'Ampezzo?.

mercoledì 29 settembre 2010

La regina

Vidi l'ultima regina d'Italia, Maria José, all'incirca nel 1987, in via Garibaldi, proprio davanti alla sede del Comune di Genova. La sua fisionomia era inconfondibile, anche se non aveva scorta né compagnia. In piedi, accanto a un'auto qualsiasi, vestiva modestamente e portava scarpe da tennis. L'autista si appoggiava a un parafango, in attesa di ordini. Mi bloccai di colpo e indicai la regina al mio compagno di passeggiata, Arnaldo Ponte. Forse la dignitosa signora avrebbe gradito un baciamano, ma noi, intimiditi, optammo, da rispettosa distanza, per un mezzo inchino che la regina ricambiò con un cenno del capo. Era emozionante vederla di persona, dopo aver trovato tante volte il suo volto sui rotocalchi tipo "Oggi", che vivevano del "gossip" di casa reale. Da topo di biblioteca, avevo in mente anche altre immagini, ben più vecchie, di Maria José a Genova; una soprattutto, scattata quando, vestita da crocerossina, era venuta a far visita ai feriti d'un bombardamento. Allora aveva intorno tutte le autorità cittadine, ora la gente che passava in via Garibaldi non la riconosceva e nessuno si preoccupava di farle gli onori di casa. Scoprimmo poi, dai giornali, che l'illustre ospite si era recata a Palazzo Tursi per salutare il sindaco. Il primo cittadino, però, se l'era data a gambe, lasciando al suo vice il compito di cavarsi d'impaccio.

giovedì 23 settembre 2010

Marcinkus

Raccontavo l'altro giorno al mio amico Mimmo un singolare incontro con Marcinkus, il chiacchierato monsignore che fu responsabile dello IOR, l'istituto bancario vaticano. Stamani apro il giornale e vedo che lo IOR, già inquisito anni fa, è di nuovo nella bufera. Quindi la mia storiella ritorna d'attualità e la ri-racconto. Capitai nel 1987 a Roma per vedere una mostra di affreschi antichi a due passi da San Pietro. Mi fermai in un bar lì vicino e mi trovai, al banco, accanto a due prelati. A un certo punto, uno dei due trasse dall'abito talare una matita a scatto, la usò per un appunto e la rimise in tasca; sbagliò tuttavia mira e la matita cadde senza far rumore sul pavimento cosparso di segatura. L'adocchiai e vidi che si trattava di una di quelle matite laccate di solito esposte nelle cartolerie di lusso. Cose che costano 'na cifra, come dicono a Roma. Fui tentato di attendere l'uscita dei prelati per far fuori il prezioso oggetto. Poi mi dissi: "Vergognati, non vorrai rubare a un ministro di Dio, proprio qui in Vaticano...". Così raccolsi la matita e dissi al prelato: "Scusi, le è caduta questa". Il reverendo mi ringraziò. Solo a quel punto lo guardai in viso e riconobbi la ben nota fisionomia di monsignor Marcinkus. Diavolo, avevo perduto l'occasione di ricambiare minimamente una delle tante fregature che lui aveva inflitto con la sua banca.

venerdì 17 settembre 2010

Megli

Megli è una frazioncina di Recco, a mezza collina, con vista sul mare; una frazione così piccola che gli abitanti non sono mai stati censiti. Case modeste, tanti fiori, vegetazione curatissima. Vi si rifugiò per anni il più noto pittore genovese, Oscar Saccorotti, appassionato cultore della natura. A Megli abitava anche un conosciutissimo oncologo dell'ospedale Galliera, Luigi Gallo, ormai pensionato. Io lo conobbi una trentina d'anni fa, quando aprì il primo ambulatorio per la cura chimica del cancro, fino ad allora affrontato soprattutto con la radiologia. All'inizio, l'ambulatorio era un posto tragico, una specie di scantinato dove, lungo le pareti, si allineavano persone in muta attesa, due volte al mese, di una siringa di liquidi ignoti, accompagnata da una parola d'incoraggiamento. Gallo lavorava per molte ore al giorno in quell'ambiente da incubo senza dare segni di cedimento. Quando raggiunse l'età delle pensione, il ritiro di Megli dovette sembrargli l'ingresso in un Eden offerto in premio alla sua vita meritoria. L'altro giorno pioveva forte, una grondaia della casa si era intasata e il dottor Gallo è andato a ripulirla, ma è caduto dal tetto ed è morto. I genovesi gli hanno dato l'addio con una pagina di necrologi. Che destino, vivere per tanto tempo in un inferno per poi morire dopo aver messo piede in un piccolo paradiso terrestre.

sabato 11 settembre 2010

Passerelle

La trasmissione Tv "Da-da-da" ha riportato in vita la passerella delle vecchie riviste musicali; non quella, sciamannata, di Alberto Sordi e di "Andò vai se la banana nun ce l'hai...", ma quella vera, opulenta, signorile del grande teatro d'intrattenimento leggero. Quella di Wanda Osiris, tanto per intenderci. La Wanda era la delizia della claque dell'Augustus, di cui facevo parte: si fermava nel nostro angolo di passerella e ci salutava uno per uno, dandoci la mano; le piaceva recitare la parte della soubrette assediata dagli spettatori. Una volta, però, ci toccò il rovescio delle medaglia. In una rivista c'era una ballerina, Kiki Urbani, che veniva dalla danza classica; si esibiva da solista seguendo la musica di una canzone della quale ricordo solamente il primo verso: "Non so perché ma quando il cielo è rosso...". Era una ballerina piccola e robusta e la sua interpretazione risultava molto "carnale". La salutammo con entusiasmo quando, nel gran finale, le toccò la sfilata in passerella. Date le sue origini artistiche, per lei era un'assoluta novità. Sta di fatto che, invece di ringraziare, come le sue colleghe, con sorrisi e inchini, interruppe di colpo la ritmica camminata e strofinando pollici ed indici ci chiese ad alta voce: "Ma siete pagati?". Peccato, accadde proprio quella volta che eravamo assolutamente sinceri e anche un po' arrapati.

domenica 5 settembre 2010

Sabelli

Una volta il "Decimonono", giornale risparmioso, decise di fare una follia e assunse un inviato di lusso, Claudio Sabelli Fioretti. Il "big" arrivò e s'infilò in ufficio senza venire in redazione a presentarsi. Almeno, con me non lo fece. Ci rimasi male, ma il caso mi offrì una rivincita. Circa un mese dopo mi passarono una telefonata: "Sono la commessa di un negozio di via San Vincenzo, c'è qui un cliente che vorrebbe pagare con un assegno. Si chiama Sabelli, dice di essere un giornalista del "Secolo". Me lo può confermare?". Sogghignando risposi: "Guardi, io sono al Decimonono da vent'anni, ma questo Sabelli non lo conosco. Se fossi in lei non mi fiderei. Comunque attenda che m'informo". Posai il microfono sul tavolo e aspettai un minuto, immaginando lo sconcerto della commessa e l'imbarazzo crescente del collega. Poi passai la telefonata al capo redattore che schizzò in piedi: "Come? Ma cosa dice! Certo che lo conosciamo, è una persona affidabilissima!". Gustata la vendetta, incassai impavido gli epiteti irriferibili del capo. Mi pentii dello scherzo solo molti anni dopo, quando scoprii, guardando un servizio in Tv, che Sabelli era nato nella mia provincia di elezione, Viterbo, e amava moltissimo Vulci, la città etrusca che avevo rimesso in luce nei miei anni giovanili dedicati all'archeologia. Quasi un fratello sconosciuto, insomma.

martedì 31 agosto 2010

Le colombe

Sul Decimonono, in occasione di un nuovo trasloco dei DS, è stata ricordata la sede storica del PCI genovese, un palazzotto in salita san Leonardo acquistato dal partito nel 1953 e rivenduto pochi anni fa, quando la burocrazia politica "dimagrì". Per anni e anni l'indirizzo era stato sinonimo della dirigenza comunista, i politologi scrivevano: "In salita San Leonardo si dice...". Al momento dell'acquisto dell'edificio è legato un aneddoto che mi raccontò il pittore Aldo Bosco. Il palazzo, distrutto dai bombardamenti, era stato ricostruito dopo la guerra e a Bosco era toccato l'incarico di abbellire le facciate con affreschi. L'artista aveva scelto di rappresentare proprio la ricostruzione post bellica, con muratori al lavoro sulle impalcature e colombe bianche posate accanto ai loro piedi. In quel periodo furoreggiava la "colomba della pace" di Picasso, molto cara ai comunisti; per questo al proprietario dell'edificio, un democristiano di lungo corso, le raffigurazioni di Bosco non andavano giù: "Ma quelle colombe - gli ripeteva - ce le doveva proprio mettere?". Un giorno però disse: "Sa, caro Bosco? In fondo quelle colombe sono belle, ci stanno bene...": aveva appena venduto il palazzo al PCI. Ora il partito se n'è andato, ma le colombe affrescate sono ancora lì, piccola immagine del "come eravamo".

mercoledì 25 agosto 2010

Il telefono

La nazionale di calcio ai Mondiali ha fatto (inutilmente) ricorso alla "stanza del pensiero"per guarire i suoi mali studiando alla moviola i punti deboli degli avversari. Quel tipo di "Think room" faceva parte del mio mondo quotidiano quando il Decimonono era ancora nel palazzo di De Ferrari. Vi lavoravano i redattori più autorevoli del giornale. Il silenzio regnava sovrano, rotto solamente dallo squillo del telefono, che era collocato sulla scrivania di Nelio Ferrando. Il collega polemizzava ogni giorno, facendo notare che il fatto d'aver il telefono a portata di mano non lo retrocedeva a centralinista di tutti i redattori della stanza: era quindi giusto che anche gli altri andassero a rispondere a turno. Io ero riuscito a conquistare una scrivania nella "Think room" facendo una scambio di ruoli con Beppe Borselli, un brillante toscanaccio che aveva fra l'altro il merito di essere stato un pioniere della critica televisiva. Insediato, incassai occhiate di disapprovazione quando mi misi a scrivere a macchina, turbando il silenzioso scorrere delle biro dei colleghi. Cercando di recuperare posizioni, ebbi un colpo di genio: cominciai ad alzarmi sistematicamente per rispondere ad ogni squillo del telefono. Da quel momento fui cooptato nel gruppo: avevo, è vero, portato il rumore nella "stanza del pensiero", ma vi avevo anche realizzato la "pax telefonica".

sabato 21 agosto 2010

Cossiga

Cossiga è ancora tra noi? Quando mi sono messo a scrivere (male) di lui è andata via la luce e il computer ne ha fatte di tutti i colori. Ora ricomincio. Con Cossiga avevo un conto aperto dai tempi del rapimento di Aldo Moro, non so se ora devo considerarlo chiuso. Ero andato, rischiando la pelle, a recuperare il biglietto d'un sedicente brigatista pentito che affermava di essere disposto a rivelare dove fosse il prigioniero. A Cossiga, ministro dell'Interno, bastarono pochi minuti per esaminare il messaggio, dichiararlo inattendibile e ordinare l'interruzione di ogni contatto. Morto Moro, Cossiga si pentì d'aver sposato il partito della fermezza, si dimise e andò a inginocchiarsi al cimitero di Turrita Tiberina. Fin qui meritava il mio rispetto; se lo giocò ritornando alla grande in politica e accettando la candidatura alla Presidenza della Repubblica sostenuta da coloro che l'avevano indotto a non trattare per la vita dello statista democristiano. Di lui mi piacque una sola cosa: quando uscì dal Quirinale sbattendo la porta, fece suonare dalla banda l'antico Inno Sardo, che non sentivo (e cantavo) dai tempi delle scuole elementari: dice "Conservet Deus su Re, salvet su Regnu Sardo..". Iddio conservi il Re e salvi il Regno di Sardegna. Un bello scherzo, messo a segno nel santuario della Repubblica.

domenica 15 agosto 2010

Le voci

Da quando si è affermato il concetto che la Tv sia uno strumento di comunicazione da guardare più che da ascoltare, si pone poca attenzione alla qualità della voce di chi appare sul teleschermo. Non ci sono pronipoti di Paladini, speaker anni Cinquanta, gradevole e chiarissimo (mentre parlava, guardava sempre l'angolo a sinistra in alto del televisore) . Eppure una voce gradevole ha una grande importanza, non solo in Tv; è passata alla storia la frase di Berlusconi a proposito della candidatura di Rosa Russo Jervolino alla Presidenza della Repubblica: "Anche l'orecchio vuole la sua parte". C'è peraltro chi ha avuto successo nonostante l'audio: nessuno avrebbe mai immaginato che Marta Vincenzi, con quella voce da brava bambina, diventasse sindaco di Genova. Per quanto riguarda i miei gusti in fatto di ascolto Tv, ho preso come una iattura la nomina di Bianca Berlinguer a direttore del Tg3: la preferivo a leggere le notizie, con la sua bella tonalità medio bassa. Se poi passo alle pagelle con voti non incoraggianti, devo ricordare il birignao di Rosanna Cancellieri, l'enfasi di Gad Lerner alle prese con una ragguardevole chiostra di denti, la perenne agitazione di Salvatore Bagni, la vuvuzela di La Russa, le tonalità acute di Ilaria D'Amico. Sì, lo so, parlo io che ho la erre moscia. Però non vado in Tv.

giovedì 5 agosto 2010

L'acqua

I gruppi contrari alla privatizzazione dell'acqua potabile hanno raccolto un milione di firme di protesta. Non sanno però che, più di un secolo fa, furono proprio le società private a portare, nelle città in espansione, acqua sufficiente alle necessità. A Genova agivano l'acquedotto De Ferrari Galliera e l'acquedotto Nicolay. Il sistema era quello dello "spandente", oggi ancora in uso nel centro storico: l'acqua saliva, con pressione naturale, fino ai tetti delle case, poi discendeva, riempiendo i serbatoi degli alloggi. Il liquido in eccesso finiva nelle fognature. Si pagava "a grano", cioè in base alla larghezza del foro che collegava il tubo del caseggiato alla condotta principale. Gli acquedotti di Genova erano popolarissimi, nel bene e nel male; ci si inventavano anche delle barzellette: "Pierino, dove sbocca lo Scrivia?" "Nelle cucine di Genova, signor maestro". Una volta il celebre giornalista Gandolin, che si vantava di saper fare qualsiasi rima, fu sfidato da un amico: "Fammi una rima con tramway, ma che ci sia la ipsilon finale!". Detto, fatto, Gandolin scrisse: "E la bella donna Livia se ne andava sul tramway, come l'acqua dello Scrivia dentro a un tubo Nicolay". Il distico ebbe un tale successo che, per anni, i cronisti del Decimonono lo usarono come "incomincio" dei loro articoli dedicati all'acqua e agli acquedotti.

domenica 25 luglio 2010

La Loggia

Qualche napoletano esagitato avrà certamente dedicato a Lippi e compagni il tenebroso augurio "Puozze passà p'a Loggia" con riferimento al tragitto che compiono i funerali. D'altra parte era stato proprio l'allora fiducioso allenatore a dichiarare orgogliosamente "Stavolta non farò salire nessuno sul carro!". Non immaginava di quale carro stesse parlando. La Loggia evocata dalla maledizione era la Loggia di Genova, un pezzo di territorio concesso in affitto dal vicerè di Napoli ai mercanti genovesi per i loro traffici in franchigia. Era il 1503. Ora la loggia non esiste più, ma nella tradizione napoletana ha lasciato due tracce: una che ricorda un facchino sorridente detto "Core contento à Loggia", l'altra che perpetua un "sugo genovese" caduto nel completo oblio nella nostra città. Si trattava di un contraltare del ragù alla napoletana, dal quale si distingueva per l'esclusione assoluta del pomodoro dalla lista degli ingredienti. La base della ricetta genovese (prendete nota) era costituita da abbondantissime cipolle tagliate a velo e spezzatino di carne di manzo; occorrevano poi una carota, un'asta di sedano, uva passa, pinoli e generose dosi di vino bianco e olio extra vergine di oliva. Cottura per almeno un'ora e mezza. Il sugo ricavato serviva per la pasta, la carne assicurava il secondo. Ricordo di aver gustato quel sugo con i ravioli. Un poema.

giovedì 15 luglio 2010

Staglieno

Lo scandalo delle salme depredate dai becchini al cimitero di Staglieno sta facendo il giro del mondo oscurando la fama internazionale di una necropoli considerata un vero gioiello, artistico e architettonico. In realtà, quei marmi e quelle statue sono il paravento di un'antica noncuranza di Genova nei confronti dei morti non appartenenti alle classi elevate: ancora nell'Ottocento i deceduti non abbienti venivano portati via di notte dalle case e dagli ospedali e scaricati alla foce del Bisagno in un camerone che era stato munito d'inferriate per far sì che il mare non si portasse via resti troppo grossi dei defunti. Anche nell'opulenta Staglieno non mancavano usi del tutto sconvolgenti : nel 1900 gli inquirenti su una controverso caso di omicidio, non riuscendo a stabilire da che distanza fosse stato sparato il fatale colpo di fucile, ottennero di fare esperimenti sui corpi di tre giovani donne appena portate al seppellimento. In una sala mortuaria le tre disgraziate salme furono prese a fucilate in testa da diverse distanze e con differenti tipi di cartucce, in modo che i periti potessero prendere visione dei danni causati dai colpi e fare i loro confronti. L'opinione pubblica rimase agghiacciata e sconvolta dalla notizia, ma non furono presi particolari provvedimenti: tutto era nella norma, a parte la pietà.

lunedì 5 luglio 2010

Giuffré

Con Aldo Giuffré (scomparso l'altro giorno) ebbi un breve incontro - anzi, scontro - nel 1953, all'uscita degli artisti dietro al teatro Augustus. Si rappresentava "Attanasio cavallo vanesio" e io, studente con pochi quattrini, ero riuscito a infilarmi in sala grazie a un biglietto di favore ricevuto dal capo claque. Rascel era in perfetta forma e raccolse un sacco di applausi, tanto da rendere superfluo il mio apporto mercenario al successo; potei quindi distrarmi nella contemplazione delle ballerine e di una subrettina, di nome Giulia, assai seducente. Finita la rappresentazione, mi appostai all'uscita degli artisti per raccogliere qualche autografo. La Giulia uscì, mi firmò il tesserino da studente (lo conservo ancora) e si fermò a chiacchierare: evidentemente avevo un'aria del tutto innocua. Non la pensò così Aldo Giuffré, che non faceva parte del cast e quindi era all'Augustus come supporter (di Giulia?). Sbucando dalla porticina, notò subito lo scambio di battute tra me e la soubrette e attaccò una filippica sulle ragazze dello spettacolo che andavano protette dai male intenzionati e sul suo dovere d'intervenire. Gli dissi sorridendo: "Signor Giuffré, non sarà per caso geloso?". Mi squadrò con una severità degna di Eduardo de Filippo e sillabò: "Guaglio', sparisci!". Sparii.

lunedì 28 giugno 2010

Alimenti

Quando è scoppiato il caso delle mozzarelle blu e la Tv ha dato i nomi delle ditte coinvolte. sono andato a guardare in frigo e ho scoperto d'aver acquistato latte, formaggio, yogurt e panna di una di quelle aziende. Ho resistito alla tentazione di gettare via tutto dopo aver ricordato che i prodotti di quella marca li consumo da due anni circa e non mi hanno mai fatto male. Misteri dell'alimentazione e anche degli scandali alimentari. Mi è tornato il mente il caso storico di Braccio di Ferro, l'intrepido marinaio che, nei fumetti e nei filmetti, rinforzava i propri siderugici muscoli risucchiando con la pipa scatolette di spinaci. Si scoprì solo dopo parecchio che gli spinaci contengono in realtà limitatissime quantità di ferro, la metà di quello della rucola e un terzo del radicchio. Tutto era dipeso dall'errore di analisi compiuto da uno scienziato. Il dato reale rende meno amara la delusione che mi tormenta da anni quando entro in un supermercato e passo davanti allo scaffale degli alimenti in scatola: vedo fagioli cannellini e borlotti, cetrioli, ceci, fagiolini, piselli di tutte le taglie, ma non vedo mai scatolette di spinaci. Se Popeye si trovasse a combattere con Bluto nell'immensità di un supermarket non avrebbe alcuna possibilità di doparsi come al solito, a meno di ricorrere ai surgelati. Il perché è un vero enigma.

martedì 22 giugno 2010

Evasione

L'equipaggio dello yacht "Force Blue" sequestrato dalla Finanza si è schierato sulla soglia del Palazzo di giustizia di Genova, reclamando il proprio posto di lavoro. Non ha ricevuto solidarietà sindacali, è prevalsa l'ostilità verso Briatore, presunto proprietario ombra dell'imbarcazione. Per fortuna un giudice ha capito le ragioni di quei marinai. Da Roma comunicano cifre colossali sull'evasione totale in Italia, sollecitando la pubblica indignazione. Io per ora non m'indigno e non lo farò fino a quando non mi daranno delle cifre un po' più ragionate e un po' più disarticolate. Secondo me gli evasori vanno divisi per categorie: ci sono coloro che si trovano di fronte all'alternativa "o pagare le tasse o provvedere alla propria famiglia"; coloro che sottraggono il dovuto al fisco, pur essendo benestanti; coloro che anche grazie all'infedeltà fiscale riescono a pagare (magari in nero e male) un certo numero di dipendenti; e via dicendo. Quando Tremonti dividerà il cratere dell'evasione totale in una serie di buchi, valuterò se scatenare la mia indignazione. Intanto, appare senz'altro giusto dare la priorità alla ricerca degli evasori nel mondo dei ricchi, i più colpevoli. Ma quanto frutterà? Credo proprio poco. La massa dell'evasione è altrove, secondo me. Tra i meno abbienti. E' un'evasione di necessità.

mercoledì 16 giugno 2010

Silvano

Sotto il regime ci fu anche una specie di antifascismo involontario, quello di Mario Panzeri, autore di canzonette che la gente collegò ai potenti del momento: così "Maramao perché sei morto" servì da epitaffio di Costanzo Ciano, "Pippo non lo sa" fu ritenuto un ritratto di Starace, "Il tamburo principal della banda d'Affori" sfiorò, addirittura, Mussolini. Proprio a quel "tamburo" è collegato un episodio che il mio caro consuocero Silvano Bardini (scomparso pochi giorni fa) ci raccontò una notte di Capodanno, mentre attendevamo insieme il botto dello spumante. Era successo nel teatro di Pontremoli, dove, dopo l'8 settembre, un gerarca proclamava che la vittoria era ancora possibile, bastava aver fede nel Duce. Su in loggione, ad ogni frase rimbombante, Silvano e i suoi coetanei intonavano: "E' il tamburo principal della banda d'Affori...". Quei giovani formarono poi un gruppo armato che tentò di attendere la fine della guerra rimanendo al paese: i pontremolesi li chiamavano, appunto, "Quelli della banda d'Affori". Le cose andarono male, Silvano sfuggì per un soffio alla fucilazione, subì mille traversie e arrivò stremato al 25 aprile. Si riprese, divenne, con gli anni, il libraio più popolare di Genova, con il suo banco di volumi d'occasione in via XII ottobre. Simpatico, scrupoloso, misurato in ogni gesto e in ogni parola, era riuscito a trasformare in virtù civile la disciplina militare che aveva scandito per anni la sua esistenza.

giovedì 10 giugno 2010

Congedi

Ai cambiamenti di costume non si sottraggono neppure i funerali. Una volta si dicevano dei requiem, ora magari ci scappa anche uno stonatissimo applauso. A Genova i fautori delle esequie civili hanno giustamente reclamato un luogo idoneo per il congedo. L'assessore ai servizi cimiteriali ha assicurato che sarà costruito "un tempio laico": come a dire che anche il laicismo è una religione. A Firenze, per festeggiare i 35 anni di "Amici miei", hanno organizzato un nuovo funerale del Perozzi, a risarcimento della squallida cerimonia che appariva nel film. Questa volta si sono presentati mille volontari vestiti di nero, accompagnati da clown e majorettes. La cerimonia, insomma, sta viaggiando sul confine tra il dramma e la farsa. Forse l'ha già superato, a giudicare da un annuncio mortuario apparso in questi giorni sul "Secolo XIX": due sorelle comunicano la dipartita della madre, indicano la data e il luogo (rivierasco) del funerale civile e concludono testualmente: "Segue rinfresco in via Garibaldi 92". Potrebbe essere un caso di scarsa dimestichezza con la lingua italiana, oppure l'esecuzione della precisa volontà di un'eccentrica signora. Non voglio pensare che si sia trattato di un tentativo di attrarre più gente alle esequie. Se, tuttavia, fosse così, per affollare il mio addio ci vorrà anche una lotteria.

venerdì 4 giugno 2010

Ombrelli

La società di navigazione MSC si lamenta perché i suoi crocieristi arrivano a Genova il lunedì e trovano tutti i negozi chiusi. E' un problema non risolvibile, in quanto troppi commercianti locali considerano la "bottega" una rendita privata e non un servizio pubblico. Quando, tanti anni fa, facevo il cronista, l'odissea delle saracinesche abbassate era terribile soprattutto a Ferragosto. Alla vigilia, il mio capo mi mandava a cercare la mosca bianca, cioè qualcuno che avrebbe tenuto aperto. Occorreva quindi passare di negozio in negozio e chiedere: "Lei chiude?". Una volta, durante il solito pellegrinaggio, passai davanti alla pellicceria Falciola, in via San Luca. Mi dissi "Qui è inutile chiedere, chi comprerebbe pellicce a Ferragosto?". Però entrai, sperando in uno spunto umoristico che ravvivasse il mio resoconto; il signor Falciola, invece, mi stupì, comunicandomi che avrebbe tenuto aperto: "Non vendo solo pellicce - spiegò - ma anche ombrelli e a Ferragosto arriva in porto il "Constitution" con i crocieristi americani. Tra i turisti Usa c'è un passaparola: quando sbarcate a Genova compratevi un ombrello, sono di qualità meravigliosa". Cosicché quando, Oltreoceano, esaltavano la gloria di Genova, non si riferivano a Colombo, ma alla "seta gloria" con cui, una volta, si facevano i paracqua.

sabato 29 maggio 2010

Heysel

Grande giornalismo l'altro lunedì in tarda serata, a "La storia siamo noi" di Minoli. E' stato mostrato un documentario sulla tragedia dell'Heysel, lo stadio di Bruxelles che vide la morte di 39 tifosi (32 italiani) schiacciati dalla folla messa in fuga dalle violenze dei supporters inglesi. Era la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, nel 1985, il 29 maggio (oggi). Nel documentario, oltre ai ricordi dei superstiti, apparivano immagini girate durante la tragedia: tanto perfette (ed atroci) da sembrare un film. Abbiamo visto i morti, la gente che agonizzava, le ondate di fuggiaschi che si salvavano calpestando i caduti. La frase più amara e più vera l'ha detta un sopravvissuto: "Mentre sentivo che mi schiacciavano, pensavo: ecco, sono venuto fino a Bruxelles a morire per una partita di calcio". Quelle parole mi hanno ricordato un altro lutto calcistico, qui a Genova: la morte di un ragazzo accoltellato al cuore da un tifoso avversario. Anche in quella povera vittima la fine incombente aveva ridimensionato i miti e portato alla ribalta ciò che era importante: mentre entrava in sala operatoria, dalla quale sarebbe uscito cadavere, il ragazzo non inneggiava alla sua squadra, non imprecava contro l'avversario; gridava, disperato, la sola cosa che ormai contava per lui: "Non voglio morire, non voglio morire...".

domenica 23 maggio 2010

Cèlebret

Tutti scatenati sulla prospettiva dell'uscita di Santoro dalle dipendenze della Rai e del suo passaggio al rango di collaboratore. La "sparata" di giovedì sera in apertura di "Anno Zero" non ha chiarito molto. Per ora si sa di sicuro che il giornalista dalle chiome cangianti è disposto a rinunciare al suo "cèlebret" e che la Rai è pronta a fargli ponti d'un oro non solo metaforico. Che cos'è il "celebret"? Ve lo spiego: quando un sacerdote si trova in una diocesi che non è la sua e deve dire Messa, chiede solitamente ospitalità in una chiesa. Lì gli viene chiesto di mostrare il "celebret", un tesserino firmato dal vescovo che attesta la sua abilitazione a celebrare i sacri riti. Se il religioso è sospeso "a divinis" non ha più il tesserino. Ora pare che Santoro si adatti a restituire il suo "celebret" televisivo, che consisteva nell'andare in onda in diretta con scalette e testi decisi da lui. Se la rinuncia avverrà, Santoro, divenendo collaboratore, dovrà prima proporre una serie di produzioni e farsi accettare gli argomenti, poi dovrà far visionare il prodotto registrato (e si sentirà dire qui va bene e qui taglia). Con questi scenari di lavoro e considerando il carattere non facile del personaggio, è quasi ovvio prevedere burrasca fin dal primo taglio. Santoro potrebbe quindi ritornare a stracciarsi le vesti. Tv e giornali non vedono l'ora.

lunedì 17 maggio 2010

Il salto

Com'è ovvio, il Presidente Napolitano legge nelle cerimonie testi preparati dal suo staff e da lui opportunamente ritoccati. In occasione di un recentissimo discorso, per polemizzare con chi sogna la secessione, ha usato un'immagine non molto fortunata, quella del "salto nel buio". Era dal 1946 che non la sentivo, la ripetevano ossessivamente i monarchici per cercare di scongiurare la nascita della Repubblica con il referendum. Quando l'ho riascoltata, ho ripensato a quei giorni lontani, alle roventi polemiche contro il ministro dell'Interno, Romita, accusato d'aver infilato nelle urne un milione di schede contrarie alla permanenza di Casa Savoia. I delusi cantavano "Chiudi gli occhi Romita" sull'aria della popolare canzone dedicata a Rosita. Lui, Romita, se ne infischiava e non badava neppure alle satire sulla sua bassa statura, che, nella città d'origine, Tortona, gli era valsa il soprannome di Romitei (Romitino). Da giovane, il futuro ministro aveva corteggiato invano una sorella di mio padre, Carolina, che poi preferì un cugino, Silvio. Chissà, se la zia avesse accettato di sposare Romitei, avrei avuto un potente protettore, avrei potuto fare carriera a Roma, entrare in politica. Invece sono rimasto qui a centellinarmi le ultime delusioni: pensate un po', non sono neppure entrato nella lista di Anemone.

martedì 11 maggio 2010

L'invito

L'esplosione d'ira che ha travolto i freni di d'Alema a "Ballarò" sembra destinata a fare epoca. Ho già rivisto la registrazione in tre programmi Tv diversi, naturalmente con differenti interpretazioni. E' stata di sicuro un "apax", come dicono i filologi per classificare un'espressione che nei testi antichi s'incontra una sola volta: nessuno - ritengo - oserà ripetere davanti alle telecamere il liberatorio "Vada a farsi fottere" del leader Pd. E' peraltro da mettere in preventivo, in uno dei prossimi dibattiti, il ricorso all'allusione da parte di qualche contendente messo alle strette; a un tipo castigato come Bondi, per esempio, riuscirebbe naturale dire a un contraddittore: "Se permette, le faccio un invito dalemiano". Comunque sia, l'iracondo leader rischia di passare ai posteri portandosi appiccicata addosso quella frasetta. Perderà l'imbarazzante fardello solamente nei testi scolastici: infatti nessun professore del Tremila inviterà gli studenti a ricordare cosa disse D'Alema a Ballarò, per lo stesso motivo per il quale oggi non s'insegna ciò che gridò Cambronne a Waterloo. Il più citato nelle aule future sarà ancora Garibaldi, con il suo telegrafico "Obbedisco". A dire la verità, poco prima era sbottato anche lui come D'Alema, ma fece in tempo a correggersi. Non c'era ancora la diretta Tv.

mercoledì 5 maggio 2010

Coccodrilli

Un medico, conscio dell'imminente fine, ha chiesto di leggere in anticipo il proprio necrologio. Un giornale l'ha accontentato, scegliendo però la forma, meno funebre, di un'intervista in cui il dottore morente (si chiama Godi, ironia dei nomi) ha potuto raccontare tutta la sua esistenza. Di necrologi dedicati a persone viventi erano ben muniti, una volta, gli archivi dei quotidiani: venivano preparati per tempo in previsione di decessi dell'ultima ora o di momentanee assenze dell'"esperto" di questo o quel personaggio. Al "Decimonono" di quarant'anni fa il più accurato nel preparare "anticipi" del genere (si chiamavano, in gergo, "coccodrilli") era il critico d'arte Attilio Podestà: continuammo a pubblicare quei suoi articoli anche dopo la scomparsa dell'estensore. Forse per scaramanzia, il diligente "Tillìn" non aveva commemorato preventivamente il suo fraterno amico Emanuele Rambaldi, ben noto pittore chiavarese. Quando il lutto avvenne, Podestà si sciolse in lacrime e fu per molte ore incapace di mettere mano a un ricordo dell'artista. Io dovevo chiudere la terza pagina e non sapevo come cavarmela. Alla fine dissi a "Tillìn": "Dài, scrivi una lettera al tuo amico, fai conto che sia ancora vivo". L'espediente lo convinse a riprendere la penna, ne uscì una grande pagina di giornalismo.

giovedì 29 aprile 2010

Burocrazia

La burocrazia resiste a oltranza, i roghi di leggi ostentati dal ministro Calderoli non le fanno neppure il solletico. Adesso però c'è una novità, la burocrazia facoltativa. Se dovete del denaro a qualcuno e l'interessato vi chiede di farglielo avere attraverso una ricarica sulla sua carta Postepay, è logico che andiate in un ufficio postale: lì vi toccherà compilare un modulo, indicando le vostre generalità, il numero della vostra carta d'identità (da mostrare) il numero della Postepay da ricaricare e l'importo; dovrete inoltre esibire all'operatore la tesserina con il vostro codice fiscale. A quel punto l'operazione potrà avvenire, al costo di un euro. A tutto questo avete un'alternativa: potete entrare da un tabaccaio che abbia la postazione Lottomatica (quasi tutti), dargli un pezzo di carta con il numero della carta Postepay da ricaricare e consegnargli il denaro. Niente moduli, niente dati personali, niente documenti. In pochi secondi l'operazione sarà eseguita. Costo? Due euro. Vorrei proprio che il sistema si allargasse: se a qualsiasi sportello mi dessero degli stampati da compilare e un elenco di attestati da richiedere e poi mi dicessero: "Se paga un euro in più, può fare a meno di tutto questo", spenderei ben volentieri quel "Vitruvio", pur essendo ormai un mezzo genovese. Ma, ironia della sorte, una boccata di aria buona si trova per ora solamente dai tabaccai.

venerdì 23 aprile 2010

Il duello

Un tempo (parlo dell'Ottocento) fare il giornalista significava anche dover rendere conto dei propri articoli impugnando la spada. E' celebre il duello che segnò la fine di Felice Cavallotti per mano di Ferruccio Macola: uno scontro che cambiò il destino della politica italiana togliendo dalla scena un grande e amatissimo leader della sinistra. Le sfide proseguirono, in tono minore, anche nel secolo successivo: il vecchio direttore del "Secolo XIX", Umberto Vittorio Cavassa, mi raccontava che da giovane faceva un'ora di sala d'armi al giorno, per essere pronto a scendere sul terreno in caso di controversia cavalleresca. Era un'usanza barbarica? Probabilmente sì. La buttò addirittura in ridere Edoardo Ferravilla, nel suo impagabile "Duel del sciur Panera", in cui lo sfidato diceva all'avversario: "Ma se lei continua a muoversi, come faccio a infilzarla?". Sta di fatto che il duello semplificava molto le cose. Ora che non c'è più, abbiamo assistito al grande bailamme della direzione del PDL, alimentato, a quanto pare, anche da articoli del "Giornale" e di "Libero" sulla compagna del Presidente della Camera. Un Fini dei tempi andati avrebbe mandato i padrini a Feltri o a Belpietro e tutto sarebbe finito al mattino presto dietro al convento delle Carmelitane scalze: una feritina al braccio, una riconciliazione d'obbligo. Anche la signora sarebbe stata più contenta.

sabato 17 aprile 2010

Garlasco

L'intervista di "Matrix" ad Alberto Stasi e le conseguenti dichiarazioni colpevoliste della famiglia Poggi hanno riacceso i fari sul giallo di Garlasco. Io sono da tempo convinto che la soluzione vada cercata studiando soprattutto le modalità del crimine. Per parte mia, mi sono fissato su una domanda forse mai formulata nell'inchiesta: "Perché l'assassino, uccisa Chiara, ha trascinato il corpo fino alla scala interna, dietro a una porta?". La sola risposta che ho trovato è questa: "L'assassino voleva togliere il cadavere dalla vista immediata di chi fosse entrato in casa". Nuova domanda: "Quale interesse aveva l'assassino a fare tutto ciò?". Nuova risposta: "L'ha fatto perché voleva proseguire l'agguato ai danni di una seconda vittima". Terza domanda: "Chi poteva essere questa nuova vittima designata?". Terza risposta: "Tutto fa credere che fosse Alberto Stasi, atteso nella casa ma giunto tardi, quando l'assassino, snervato dal lungo appostamento, aveva deciso di rinunciare ed era fuggito". Quarta domanda: "Perché l'omicida non ha aspettato che Chiara e Alberto fossero insieme nella casa?". Quarta risposta: "Evidentemente era solo e non voleva battersi contro due". Stando così le cose, il quesito sul movente potrebbe cambiare ed essere questo: "Perché Chiara e Alberto dovevano morire?".

domenica 11 aprile 2010

De Chirico

Grande mostra a Roma, a cura di Achille Bonito Oliva, sul rapporto tra Giorgio De Chirico e la natura. E' un tema che stava a cuore al celebre artista: me ne parlò nel 1973, quando andai a intervistarlo all'albergo Bristol di Genova. Era cordiale, ma la moglie-manager, Isabella Far, lo teneva bloccato, gli impediva quasi di aprir bocca rispondendo per lui: "Il Maestro non si occupa degli aspetti economici del suo lavoro", "Il Maestro non esprime giudizi sugli altri artisti" e via di questo passo. Riuscii a far tacere la contraerea sparando a mia volta questa domanda: "Maestro, è stato detto che i suoi quadri metafisici sono sciarade senza soluzione. E' vero?". De Chirico stuzzicò la moglie: "E adesso cosa devo rispondere, cara?"; poi si rivolse, finalmente, a me: "Guardi, sui contenuti della mia arte molto è stato inventato dai critici. Che in quei quadri ci sia un po' di mistero è indubbio, ma lo stesso mistero lo si può trovare anche nel miei quadri "fisici", dedicati alla natura, o nei ritratti. E' un'atmosfera costante nella mia opera, ma non è la sua essenza. Conta, soprattutto, fare della buona pittura. Oggi troppi disprezzano la tecnica, ma "techne", in greco, significa arte". La signora Isabella era d'accordo, tanto che, a sorpresa, mi dedicò un sorriso.

lunedì 5 aprile 2010

Pasquinate

Quando, alla fine del Settecento, si scavò il Foro Traiano a Roma, si trovarono 72 colonne smozzicate, ma nessun capitello. Combinazione volle che, proprio in quell'epoca, il Sacro Collegio fosse composto da 72 cardinali. Così, sulla statua di Pasquino, fu affissa questa quartina: "Del purpureo Senato / la vera imago è questa / settantadue colonne / e tutte senza testa". La Pasquinata mi è tornata in mente la settimana scorsa, mentre visitavo la grande fiera commerciale che si svolge alla fine dell'inverno negli stessi padiglioni del Salone Nautico genovese. Avevo uno scopo preciso, cercavo un paio di pantaloni elegantini ma a buon prezzo. Non vi dico la delusione: mi sono trovato di fronte a una marea di giacche di pelle, di fustagno, di tela, di lana: file interminabili, talvolta appese ad altezze vertiginose per attirare la gente da lontano. Niente invece per la parte inferiore del corpo, a parte dieci o dodici jeans che se ne stavano tristemente accucciati in un angolo, tanto da sembrare appena sbarcati da un gommone a Lampedusa. Che fare? Ho preso la direzione dell'uscita, ma prima ho affisso idealmente sui padiglioni una mia Pasquinata alla ligure: "A Fiera Primavera / hanno le idee un po' vaghe: / settantamila giacche / e manco un pa' de braghe".

martedì 30 marzo 2010

Il figlio

C'è un Sergio più simpatico di me: Sergio Romano, che scrive in modo pacato e attraente sul "Corriere". Rievocando un diplomatico degli anni '40, Giacomo Paulucci di Calboli, mi ha fatto tirar giù dalla libreria un volume del 1920 che ricorda un eroe della stessa famiglia, decorato con medaglia d'oro nella prima guerra mondiale. Questo Di Calboli dal nome dantesco, Fulcieri, era totalmente dedito a due ideali oggi fuori attualità, l'amor di patria e la castità prematrimoniale. Si era laureato in legge a Genova sostenendo la giustezza della tassa sul celibato ("Chi non paga in figli paghi in denaro"). Ufficiale di cavalleria, fidanzato con Alessandra, crocerossina di sangue blu, aveva chiesto il permesso di sposarsi prima di andare al fronte, ma gli era stato negato. Ferito a un ginocchio, ottenne di ritornare in trincea con una gamba rigida; un'altra pallottola gli spezzò la schiena e lo ridusse paralizzato su una carrozzella. Morì poco dopo la fine del conflitto. Durante la permanenza al fronte, aveva conosciuto una giovane contadina messa incinta dal fidanzato, che poi era partito per la guerra. Lei era ben felice di aver quella testimonianza d'amore, soprattutto in caso di non ritorno del suo caro. Una storia serena, che, tuttavia, al nobile Fulcieri era sembrata possibile solo nel ceto popolare. A lui toccò di morire vergine, rimpiangendo il figlio mai avuto.

mercoledì 24 marzo 2010

Le teste

Erano un milione! No, erano cinquantamila! No, centocinquantamila! Quante discussioni sul raduno del PDL a San Giovanni. Sembra impossibile che, in questo 2010 super tecnologico, non sia stato ancora inventato un aggeggio elettronico che conti in un attimo le teste. In attesa del nuovo strumento, basterebbe intanto attaccare una macchina fotografica alla pancia di un elicottero e poi mandare un'istantanea a un istituto di analisi cliniche, pregandolo di far contare dai suoi apparecchi, per una volta, i globuli neri invece di quelli rossi. Non possiamo restare come ai tempi in cui cercavamo d'indovinare il numero dei fagioli secchi nel bottiglione di Raffaella Carrà, ne va dell'onore del Viminale e pure di tutti i ricercatori che affollano i laboratori della Penisola. Anche con una cifra sicura in mano, però, temo che non cesserebbero le polemiche: qualcuno accuserebbe la nuova macchinetta di aver contato pure i poliziotti, i venditori di ombrelli e fazzolettini, i lavavetri e le battone in cerca di clienti. Persino ovvia la replica: e le teste coperte dalle bandiere e dagli striscioni? Quelle la macchinetta non ha potuto contarle! Conclusione, forse sarà meglio mettere dei sensori sul lastricato e contare i piedi, sottraendo quelli piatti e dividendo per due.

giovedì 18 marzo 2010

L'innamorato

Il "Corriere" ha riportato alla ribalta, con un articolo, l'armatore genovese Raffaele Rubattino, che fu al centro di due grandi momenti della vita nazionale, la spedizione del Mille e l'inizio delle avventure africane con l'acquisto della baia di Assab. Non ha parlato invece della vita privata del personaggio, caratterizzata da un amore senza confini nei riguardi di una nobildonna che si chiamava Bianca Rebizzo. Anni fa, nel boschetto del cimitero di Staglieno, fui attratto da una cappella il cui cancello era stato scassinato. Entrai e mi trovai di fronte alla rappresentazione funeraria dell'amore tra Raffaele e Bianca: lei in un sarcofago in alto, sulla parete centrale della cappella, lui in un'altra arca, sul pavimento, a sinistra, come un cagnolino sdraiato ai piedi della padrona. Sulle casse di pietra erano posati due piccoli coperchi di zinco: sollevai quello più a portata di mano e mi trovai faccia a faccia con Rubattino, o meglio, con quello che restava di lui al di là di un vetro. Sembrava che mi fissasse, poi mi resi conto che le sue occhiaie guardavano lassù, verso il sarcofago di Bianca Rebizzo. Fui tentato di non rimettere il coperchio, per non spegnere la visione all'eterno innamorato.

venerdì 12 marzo 2010

Il rosticciere

"Freddo boia" dico, entrando dal rosticciere. "Guardi che a me va benissimo - mi risponde - quando fa freddo la gente mangia di più. Se viene il caldo, si mettono tutti a insalata e mozzarella e io sto qui a girarmi i pollici". "Ma non pensa ai barboni, ai cassaintegrati sui tetti, ai terremotati senza casa?" "Ha ragione, mi scusi". "Lasci perdere. Stia attento piuttosto a non dire queste cose per telefono, altrimenti l'indomani si ritrova sul giornale". La realtà è che c'è anche chi campa sul contrario di quello che noi auspichiamo. Avevo un amico impresario di pompe funebri in un paese, gli chiedevo: "Come va?"."Male, un funerale in una settimana". La volta dopo era soddisfatto: "Due in un giorno". Trilussa, raccontando la storia dell'Arca, dà la parola a Noè: "Avemo da resta' sei settimane/ tutti sott'acqua: e lì, tocca a chi tocca!"/. Ogni bestia tremò. Ma un pescecane/ strillò: "Viva il diluvio!". E aprì la bocca". Adesso non dite che un conto sono i pescecani e un conto gli sciacalli umani. Sbagliato: secondo la vulgata corrente, anche i pescecani possono scegliere come noi; i documentari tv ci mostrano lo squalo bianco che si fa fare ghirighiri dai sommozzatori. C'è poi chi sostiene, addirittura, che non esistono squali cattivi. Mmm...vorrei sapere che cosa si dicono al telefono.

sabato 6 marzo 2010

L'onda

L'onda che ha ucciso due turisti sulla "Louis Majesty" era davvero anomala? O è stato anomalo il modo in cui la nave l'ha affrontata? Sono domande che verranno fuori, prima o poi. Ai tempi dell'analogo incidente alla "Michelangelo" (1966) ne discutemmo parecchio e le conclusioni furono tutt'altro che concordi. Chi disse che l'onda anomala era tale per via della sua altezza straordinaria, chi sostenne che era un maroso qualsiasi, ma fuori tempo rispetto al ritmo delle altre onde. Chi affermò, infine, che qualsiasi grande nave può affrontare indenne un'onda altissima, a meno che non sia colta con la prua in basso o durante una virata secca. Quanto ai movimenti del mare, c' è una vecchia diceria dei marinai, i quali sostengono che dopo nove onde tutte uguali ce n'è una più alta. Lo credeva anche Gabriele d'Annunzio, il quale scrisse che il monumento di Quarto a Garibaldi sembrava "modellato sulla scogliera dal flutto decumano". Qualche volta, seduto sulla spiaggia, ho provato a identificare la decima onda, ma mi sono sempre distratto nel conteggio. Ho solamente concluso che la diceria dei marinai può essere vera: in fondo il dieci in natura esiste, basta che ci guardiamo le mani e i piedi. Per rispettare l'anomalia "decumana" dovremmo però avere un solo pollice e un solo alluce.

domenica 28 febbraio 2010

Le facce

Con l'avvento dei deputati scelti direttamente dai partiti, i cartelloni per la propaganda elettorale allestiti in città sembravano giunti al capolinea perché rimanevano desolatamente spogli. Hanno invece trovato una seconda giovinezza con le elezioni regionali. Il gioco del "Guarda che faccia da scemo" è così potuto ricominciare di fronte ai manifesti personali di questo o quel candidato tutto casa, famiglia e bene comune. Mi sono fatto una scorpacciata di volti accattivanti alla rotonda di via Corsica, dove gli spazi elettorali sono a tappo, ma mi sono invano dedicato alla ricerca di un viso che non mi fosse del tutto ignoto. A un tratto credevo di esserci riuscito: "Quella la conosco" mi sono detto. Infatti, era la cantante Alessandra Amoroso (scuderia Maria de Filippi) che però si era infilata da portoghese sul cartellone elettorale per pubblicizzare un suo concerto a Genova. Il tempo di pensare "Davvero questa destra non rispetta le regole" ed ecco, sei posti più in là, su un altro manifesto, la faccia dell'attrice Angela Finocchiaro (amata dalla sinistra) anche lei con uno spettacolo imminente, anche lei abusiva. Andrà a finire che qualche elettore resterà ingannato e scriverà, sulla scheda elettorale, il nome dell'Amoroso o della Finocchiaro.

lunedì 22 febbraio 2010

Belèn

Tutti sanno che si chiama Belèn, i più informati aggiungono un cognome, Rodriguez, ma pochissimi conoscono le generalità complete dell'espressiva ragazza argentina abbonata agli "spot" televisivi. Ebbene, per l'anagrafe è Maria Belèn Rodriguez Cozzani. E' importante? Certo, dire Cozzani, caratteristico cognome della Spezia, è come dire Liguria, sia pure al di là del Bracco. Insomma, Belèn è dei nostri, o, per meglio dire, "A l'è di nostri!". Probabilmente ha anche una parentela con Ettore Cozzani, il professore spezzino che fiancheggiò lo scultore Baroni impegnato nella creazione del monumento dei Mille a Quarto. Alla vigilia dell'inaugurazione fu Cozzani ad andare ad Arcachon per ottenere da D'Annunzio il testo del discorso da sottoporre all'approvazione di Salandra; fu ancora Cozzani a difendere Baroni attraverso la rivista "L'Eroica" quando, immancabili, arrivarono critiche e calunnie. Sarebbe quindi bello che Belèn Cozzani assistesse, a maggio, all'attesa "vernice" del monumento restaurato. Prepareremmo per lei anche un noto inno dei Trilli, un po' modificato: "Tutta a gente a stava a ammià, ou Belèn che cu ca l'ha!". Meglio non tradurre, stavolta.

martedì 16 febbraio 2010

Margherita

Sono poi andato al convegno filatelico-numismatico della Fiera del Mare e ho ammirato di tutto, dalle monete romane ai trittici della trasvolata di Balbo. Quest'anno c'erano più banchi di contorno, con materiali cartacei d'epoca e una marea di tessere telefoniche, che pensavo, a torto, fossero passate di moda. Giovani signore, con tanto di mancolista, affollavano un banco carico di sorpresine Kinder. Anche davanti a un reparto dedicato agli annulli rari c'era una signora, appena mi ha visto sostare in attesa mi ha detto: "Venga, venga, le lascio il posto. tanto io non ne capisco niente. Sono qui per impedire a mio marito di spendere troppo". Una moglie all'antica e un coniuge ingrugnato. La cosa che più mi ha colpito? Un librone su cui erano incollate centinaia d'ingiallite recensioni giornalistiche, tutte dedicate alle esibizioni di Margherita Carosio, celebre soprano nel periodo a cavallo della seconda guerra mondiale. Era genovese, la conobbi a una cena d'onore quando aveva quasi novant'anni: chiacchierò senza sosta, vivacissima e informata. Ora tutta la vita artistica della grande Margherita era lì davanti a me, racchiusa in quel volume. Pensavo alla sua ansia quando, dopo ogni esibizione, apriva i giornali. E pensavo anche a quando i giornali erano arbitri assoluti di fiaschi e trionfi.

mercoledì 10 febbraio 2010

Mille stanze

Domenica all'insegna del Quirinale, quella scorsa. Dal "Corriere" abbiamo appreso che il personale militare e civile dell'istituzione è sceso a 1879 dipendenti, ma che occorrerà bandire concorsi per riempire dei vuoti. Quasi contemporaneamente, in Tv, Philippe Daverio ci ha portato a visitare il Palazzo presidenziale, ex reggia papale e sabauda, che conta oltre mille stanze. Una volta provai a superare l'imponente ingresso principale, ben noto ai telespettatori. Mi presentai là nel 1968, perché volevo rintracciare, per un libro che stavo scrivendo, due quadri acquistati da Vittorio Emanuele III alla Biennale di Venezia. La guardia armata mi dirottò verso un accesso minore, quello dell'amministrazione. Fatto entrare, esposi il mio caso e ricevetti questa sorprendente risposta: "Sul momento non possiamo dirle niente, perché non esiste un inventario degli arredi del Palazzo. Passeremo parola al personale che riordina le stanze. Leggendo le firme dei quadri potrebbe scoprire i suoi". "Ma allora - obiettai - qui chiunque può portarsi via quello che vuole". "Qui non entra chiunque" fu la secca replica. Mesi dopo ricevetti in omaggio la foto di uno dei quadri: un sagace cameriere l'aveva localizzato. Ora sicuramente le cose saranno cambiate e l'inventario sarà stato fatto. Sicuramente?

giovedì 4 febbraio 2010

Francobolli

Sabato 13 febbraio andrò, come ogni anno,al Convegno filatelico e numismatico che si tiene alla Fiera del Mare. So già in quale compagnia mi troverò: vedrò solamente persone anziane nel settore dedicato ai francobolli e alle cartoline; tra i banchi delle monete, invece, incontrerò anche qualche raro giovane desideroso di completare la sua collezione di euro dei vari paesi. La mia generazione è stata forse l'ultima a considerare la filatelia come una compagna irrinunciabile dell'adolescenza: una busta di francobolli acquistata con poche lire in cartoleria ci spalancava il mondo, ci faceva scoprire paesaggi, regnanti, lingue, rivoluzioni, animali esotici. Siamo maturati imparando la storia della nostra Patria mentre raccoglievamo con pazienza, negli album, quei rettangolini dentellati che ricordavano date storiche, personaggi, glorie municipali, lotte politiche. Nessun filatelico ha mai confuso il 25 luglio con l'8 settembre: il fascismo, la guerra, la Costituzione, tutto fissato nella mente, per sempre. Ogni francobollo era anche testimonianza del susseguirsi degli stili artistici, educava a riconoscere l'austero Ottocento, il floreale, il déco, il Novecento. Oggi la cultura nasce e si sviluppa nel ristretto recinto della scuola. Allora ce la creavamo da soli, con gioiosa curiosità.

venerdì 29 gennaio 2010

L'Olimpo

Leggendo il "Corriere" ho scoperto che le coppiette romane si danno appuntamento sotto il balcone di Palazzo Venezia. Proprio "quello". Non hanno torto, in pochi minuti arrivano al Campidoglio, o alla Colonna Traiana, o al Pantheon; oppure ai templi di Largo Argentina con relativi gatti. Che passeggiate! A Genova, invece, noi innamorati Anni Cinquanta dicevamo "Ci vediamo alle cinque da Oscar", intendendo le vetrine dell'orologiaio Oscar Linke in piazza De Ferrari. Di lì andavamo in uno dei dodici cinematografi di via XX Settembre e dintorni, oppure, se era giovedì, salivamo, con l'ascensore più veloce del mondo, all'"Olimpo", l'elegante caffè in vetta al Grattacielo dell'orologio. Lassù, al giovedì, gli studenti universitari ballavano gratis e se prendevano un caffè non dovevano sborsare tutte le canoniche cento lire del listino. Era un gran bel posto, l'"Olimpo", una volta ci girarono una scena d'un film. Dalla terrazza si vedeva Genova a 360 gradi, la città faceva un figurone con i forestieri. Poi vennero i guai a causa di più rigorose leggi sulla sicurezza: scale strette, ascensore piccolo e unico, nessun'altra via di fuga; i vigili del fuoco fecero pollice verso e l'"Olimpo" finì. Altri ritentarono con un numero chiuso di accessi, poi dovettero desistere. Forse i pompieri genovesi presentivano le Torri Gemelle.

sabato 23 gennaio 2010

Vecchio calcio

"Tutto il calcio minuto per minuto" ha compiuto mezzo secolo. Giuste le celebrazioni, ma non è stato sottolineato a sufficienza che la trasmissione prosperò perché si stavano diffondendo le radioline a transistor, che permettevano ai tifosi di seguire dalle gradinate i risultati degli altri incontri. Ma prima di allora, come ce la cavavamo a Genova? Finita la partita, una folta colonna di supporter si dirigeva a piedi verso il centro cittadino: prima sosta in via San Vincenzo, dove lo studio fotografico Vivenzio e Pagano esponeva già le istantanee in bianco e nero dei gol e delle principali azioni del primo tempo: quasi un miracolo tecnologico, ai nostri occhi di allora. Poi si proseguiva verso piazza De Ferrari: lì, su un terrazzo a destra del pronao del teatro Carlo Felice, era pronto un cartellone ricco di occhiaie vuote, che una mano volonterosa riempiva a poco a poco con i risultati delle altre partite di serie A. Ad ogni nuovo dato il brusio delle piazza aumentava di volume. Quanto alla classifica, bisognava farsela da soli, con l'aiuto di qualche ritaglio di giornale. Venne poi una vera rivoluzione informatica, con l'installazione, sull'alto del palazzo a sinistra del Carlo Felice, di un giornale luminoso, a lettere scorrevoli, che dava risultati e classifiche. "Sembra di essere a New York" diceva, soddisfatta, la gente.

domenica 17 gennaio 2010

Giano Bifronte

Gli artisti del passato amavano rifinire le loro opere anche nei particolari poco visibili: così chi creò la Galleria Mazzini di Genova si premurò di mettere sul coronamento delle cupole alcune teste di Giano Bifronte che si possono scorgere solamente da determinati punti del marciapiede di via Roma, lato prefettura. Una volta capitò a un noto pasticciere di salita Santa Caterina, il signor Casati, di notare uno dei Giani e di restare colpito da quella presenza, fino ad allora insospettata. Infervorato, il re dei bigné telefonò al pittore Fieschi: "Vieni qui - gli disse - ti mostro una scultura, così mi ci fai un quadro da mettere in negozio". Fieschi andò, ammirò il Giano, poi instaurò una trattativa: "Quanto mi dai se te lo dipingo?". La risposta fu seducente: "Ti regalo una torta ogni domenica, vita natural durante". Concluso l'affare, la cosa andò avanti per anni. Una domenica Fieschi m'incontra, mi racconta la faccenda del Giano e mi dice: "Vado da Casati a ritirare la solita torta, ma oggi non sto bene di stomaco. Perché non te la prendi tu?". Feci il sacrificio, ne valeva veramente la pena. Per gratitudine, portai Fieschi a casa mia e gli mostrai uno dei Giani da vicino: dal mio terrazzo si toccava quasi con mano. Ora non abito più là, ma mi capita ugualmente di rivedere la scultura. E di ripensare, com'è ovvio, alla torta di Casati.

lunedì 11 gennaio 2010

De Nicola

Solenni celebrazioni a Napoli per i cinquant'anni dalla scomparsa di Enrico De Nicola, primo Presidente della Repubblica. Venne a Genova nel 1946 e salì fra l'altro al Santuario di San Francesco da Paola, vicino a casa mia. Il servizio d'ordine era affidato ai ragazzi del circolo cattolico, che frequentavo soprattutto per partecipare ad accanite sfide calcistiche nel chiostro del convento. Dunque arriva il grande personaggio e si accosta alla ringhiera del piazzale, dal quale si gode una vista stupenda su mezza Riviera. La gente accorre a frotte, preme sempre più forte, il nostro cordone di sicurezza si restringe, siamo in difficoltà. A un certo punto, pur resistendo alla folla con i calcagni puntati a terra, mi ritrovo ad appena mezzo metro di distanza dal panciotto presidenziale. E qui comincia una sceneggiata degna del miglior De Sica padre: De Nicola gesticola, proclama "Grazie, grazie, siete tanto cari!" ma, parlando tra i denti, mi sgrida: " Che ci stai a ffà? E spingi, mannaggia a ttè!". Continua così, alternando sommesse imprecazioni a pubbliche dichiarazioni d'affetto. Finalmente arriva a toglierci d'impaccio un robusto frate laico, un calabrese stile Rino Gattuso: a suon di gomitate apre un passaggio al piccolo corteo, che riesce a infilarsi in chiesa. Io rimango stremato su una panchina a chiedermi: "Mannaggia a chi? A me?".

martedì 5 gennaio 2010

Il segno

Per trent'anni me lo sono trovato seduto su uno scalino, di fronte al portone di casa, impegnato senza tregua a dire frasi dal senso sfuggente, quasi compiaciuto dal rimbombo, sotto le volte di Galleria Mazzini, della sua voce simile a quella di Sandro Ciotti, ma ancor più cavernosa. Ieri l'ho rivisto, fotografato e intervistato sul Decimonono: pare che sia un pittore di talento, ingrandimenti dei suoi quadretti adorneranno un nuovo rifugio per i senzatetto. Sarebbe facile ma crudele scrivere che per i poveretti le disgrazie non vengono mai sole e che gli "homeless" meriterebbero almeno Renoir. Dirò invece che questa storia degli ingrandimenti mi ha fatto venire in mente il "segno precario" scoperto da un titolato pittore genovese, Plinio Mesciulam. Dunque, dice Mesciulam che basta esaminare un qualsiasi conto di trattoria, scritto a mano, per scoprire che, almeno in un punto di quella nota, la grafìa del taverniere ha raggiunto la libertà di tratto, la scioltezza e l'espressività di una vera opera d'arte. Realizzando un ingrandimento di quel particolare, il quadro è fatto. Mesciulam espose anni fa significativi esempi di "segno precario"". Io posso essere della sua idea, aggiungendo però che, sicuramente, l'oste raggiunge il colmo dell'estasi artistica quando, dopo "vino e pappardelle al sugo", scrive la cifra del totale.