sabato 23 ottobre 2010

Mannoni

Una settimana fa è morto Tiziano Mannoni, genovese, uno dei massimi archeologi italiani. Lo conoscevo da oltre mezzo secolo, da quando la sua figura altissima e allampanata si affacciò all'Istituto di Studi Liguri per chiedere di consultare delle riviste. Lui era appena agli inizi di un percorso che lo portò a creare una nuova figura di ricercatore, l'archeologo di formazione scientifica. Fino ad allora l'archeologia era stata un territorio riservato agli umanisti, gente che sapeva di latino e di greco, studiava storia dell'arte antica e, in giacca e cravatta, dirigeva il piccone degli operai sulle antiche vestigia. Con Mannoni cambiò tutto, l'archeologo si mise la tuta e imbracciò la cazzuola, dimenticò "rosa rosae" se mai l'aveva studiata, si affidò al microscopio, alla conta dei cerchi nei tronchi d'albero, all'esame chimico delle calcine, alla classificazione delle forme dei mattoni. Amici da sempre, polemizzavamo sorridendo: lui mi squadernava sotto il naso i risultati ottenuti, io gli dicevo che l'antichità è una bella donna da amare, non da sottoporre ad autopsia. Ha vinto lui perché era in linea con i tempi, che vedono Giulio Cesare in calo rispetto alle storie minime dei popolani del Medioevo. Adesso temo che l'amico Tiziano si troverà a disagio in Paradiso. Lassù è tutto una nuvola, non c'è terra da scavare.

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