mercoledì 30 dicembre 2009

L'assessore

A Genova è andata in scena una guerricciola occulta tra l'assessore alla Cultura, il responsabile delle mostre di Palazzo Ducale e il consulente del sindaco per i grandi eventi. Persone con competenze talmente simili tra loro da rendere quasi inevitabile lo scontro, specie in presenza di un budget troppo magro per poter soddisfare le elaborazioni di troppi cervelli. Per contrasto, mi viene in mente un comune viterbese, Canino (sede delle mie lontane esperienze archeologiche) in cui si piange proprio in questi giorni la scomparsa di un assessore alla Cultura che forse avrebbe potuto insegnare qualcosa ai dirigenti genovesi. Questo pubblico amministratore, Roberto Selleri, con fondi centellinati era riuscito a trasformare un vecchio convento francescano in un museo straordinario, da togliersi il cappello. Mi sono chiesto più volte quale fosse il segreto delle realizzazioni dell'assessore, al di là della sua simpatia personale, che era enorme, e della fiducia dei suoi concittadini, che era totale. Sono arrivato a concludere che Selleri raggiungeva i suoi obiettivi perché era lui stesso un produttore di cultura: studiava, faceva ricerche, scriveva articoli e libri. Avrebbe litigato per un vecchio documento o per una scultura etrusca, mai per un budget. Così ha potuto lasciarci qualcosa di reale e d' importante, che onorerà per sempre la sua memoria.

giovedì 24 dicembre 2009

Le transenne

Sono pochi i potenti che non si fanno calamitare dalle transenne colme di popolo plaudente. Forse aumenteranno di numero dopo il fattaccio Berlusconi. Il più strano di questi "bagni di folla" capitò a Sandro Pertini quando andò a visitare la Cina nel 1980. Me ne raccontò i particolari il giornalista Pietro Ferro, al seguito del Presidente. Dunque, quando il corteo arriva nella piazza Tienanmen, il vulcanico Pertini, circondato dai dignitari, comincia a dare segni d'impazienza: "Basta cerimonie - esclama - voglio parlare con il popolo". E si dirige verso le transenne dove un folto gruppo di giovani sta applaudendo. "Tu - ordina, rivolgendosi a uno degli spettatori - fammi una domanda!". Naturalmente il cinese non capisce e cerca soccorso da un vicino, che gli sibila qualcosa, con piglio militaresco. A quel punto Ferro intuisce che gli spettatori sono finti, probabilmente poliziotti in borghese. Allora, da ligure a ligure, dice in dialetto a Pertini: "Prescidente, scià l'ammìe che quello lì o l'è un sbiro" (Presidente, guardi che quello lì è un agente). Pertini, deluso, ritorna nei ranghi. cercando una rivincita a spese di Ferro: "Lei è un maleducato - gli grida - non ci si rivolge in dialetto al Presidente!". Poi però aggiunge, scendendo di tono: "Scià nu scrive ninte, nu l'è u casu..." (Non scriva niente, non è il caso...).

venerdì 18 dicembre 2009

Il cartellino

Il presidente della Repubblica Napolitano ha esortato a continuare a cercare "qualsiasi frammento di verità" sulla strage di piazza Fontana: evidentemente, al di là delle dichiarazioni ufficiali, non tutto è stato accertato come si vorrebbe far credere. Ho letto, anno dopo anno, centinaia di articoli e libri sul terribile massacro, per poter scriverne a mia volta sul "Decimonono"; qualcosa, quindi, ne so. C' è un punto che considero cruciale e che le inchieste non hanno chiarito, quello delle borse di fabbricazione tedesca usate per gli attentati a Milano e a Roma. Ci sono altissime probabilità che quelle borse fossero le stesse che uno sconosciuto aveva acquistato a Padova (regno di Freda e Ventura) nella valigeria Duomo. Marca identica, meno certa la corrispondenza dei colori. C'era la possibilità di raggiungere la prova regina dell' identità: la valigeria Duomo usava infatti appendere alle borse un cartellino particolare, con indicazioni di magazzino e di prezzo. Anche gli inquirenti di Milano avevano tra le prove un cartellino da valigeria, repertato sulla scena del crimine dagli artificieri, ma quando decisero di confrontarlo con quelli di Padova, non riuscirono a ritrovarlo: disperso - dissero - nel "mare magnum" degli incartamenti. In quarant'anni si sarebbe potuto recuperare. Perché non è stato fatto?

sabato 12 dicembre 2009

La Moira

Un vecchio pittore, Giannetto Fieschi, ama rappresentare il destino sotto le sembianze di una tartaruga, "la signora Moira": così la chiama l'artista rifacendosi al nome che gli antichi greci davano alle Parche. La signora Moira mi fece un regalo dieci anni fa (era l'ultimo giorno del millennio) quando permise a un ottimo chirurgo, il professor Antonio Lijoi, di salvarmi con un intervento d'urgenza sull'aorta ostruita. Mi ripromettevo di festeggiare il decennale inviando una bottiglia di champagne al professor Lijoi, per ricordargli quelle ore drammatiche in cui dovette fermarmi il cuore (cioè uccidermi) per operarmi; per dirgli anche che era stato il suono della sua voce a farmi capire che stavo ritornando in vita. Lo champagne non partirà perché Lijoi è morto. Era ancora in buona età, aveva tredici anni meno di me. Da quando, mercoledì scorso, ho letto il suo necrologio sul giornale, m'insegue un pensiero molesto: quello che la signora Moira abbia rivoluto da lui i dieci anni e forse più che ha concesso a me. E' un'impressione assurda, lo so, chissà quante altre vite ha salvato Lijoi: perché dovrebbe essere stata proprio la mia rinascita a indurre la Parca a tagliare il filo dell'esistenza del chirurgo? Ma tant'è, il pensiero rimane. E durerà quanto il cammino della fatale tartaruga.

domenica 6 dicembre 2009

Bienvenido

Andavo qualche volta nella chiesa di Santa Caterina Fieschi per rivedere la sontuosa urna della nobildonna genovese salita all'onore degli altari. Vi sono ritornato venerdì scorso per la Messa di trigesimo d'un amico tragicamente perduto e ho assistito a una celebrazione eucaristica colma di preghiere e di inni in lingua spagnola: nel tempio si riunisce infatti la comunità equadoriana di Genova. Ho ascoltato suppliche e invocazioni che parlavano di solitudine, di sofferenza e ho intuito che i canti, più che glorificare il Signore, davano un po' di speranza, di serenità. Socchiudendo gli occhi, immaginavo di trovarmi in una di quelle missioni d'Oltreoceano, bianche di calce, che vediamo nei film; mi aspettavo che dal portale entrassero il Buono, il Brutto e il Cattivo. A me, che conosco Santa Caterina da una vita, il frate celebrante ha detto "Bienvenido hermano", come se fossi un neofita. Non mi sono adombrato, mi stavo crucciando al pensiero delle nostre chiese ormai deserte, sentivo di amare questo tempio gremito di ragazze minute e brune che cantavano il Pater Noster facendo una catena di braccia. Ho capito che ogni epoca finisce e che le sovrapposizioni di popoli sono fatali. E ho anche pensato: quando la Patria si allontana, il tuo Dio ti segue ovunque.

lunedì 30 novembre 2009

Il precario

E così un garante ha inibito a Calzedonia l'uso dell'inno di Mameli. Applaudendo, un'interpellata da uno dei tanti "Cosa ne pensa?" televisivi ha detto che l'inno non è un collant, ma un collante degli italiani. Ottima battuta, se non fosse che il pezzo forte di Calzedonia sono le autoreggenti. E anche "Fratelli d'Italia" è un autoreggente (senza apostrofo, a scanso di vilipendio) in quanto sta attendendo da sessant'anni di diventare inno ufficiale della Repubblica. E' un eterno provvisorio, un precario, un paziente fidanzato che spera nel "sì" di una ragazza invecchiata. Mi pare il momento di tirar fuori una poesiola dedicata a Mameli da Pompeo Bettini, poeta socialista di fine Ottocento e traduttore del "Manifesto" di Marx. Dice: "O fratello d'Italia/o guerriero innocente/ sognatore di rime/ a vent'anni cadente/ d'una morte sublime:/le trombe di fanfara/ dove alberga il tuo canto/ destano ai dì festivi/per strada un clamor santo/che fa fremere i vivi;/ danno ai giovani il passo/dei padri volontari, /fanciulli tolti al gioco/che con fucili impari/ rispondevano al fuoco./Resta la tua canzone/eco spenta di guerra;/i militi son vecchi,/liberata è la terra,/ gli allori cadon secchi:/ gloria di baionetta/ a che serve, o fratello?/ L'Italia non è forte/ed il suo cielo è bello./ Io non amo la morte". Oggi Bettini sarebbe in imbarazzo.

martedì 24 novembre 2009

Coloriture

Gianfranco Fini ha colto di sorpresa tutti pronunciando una "parola del gatto"; la stessa che rese ancor più popolare Trapattoni quando il simpatico trainer, conducendo in tedesco maccheronico una concitata conferenza stampa, ripeté più volte, con un crescendo quasi wagneriano, il cognome del calciatore del Bayern Thomas Strunz. Non è che Fini mi abbia scandalizzato, la volgarità non costituisce, in assoluto, un disvalore. Può rappresentare addirittura un arricchimento verbale, una simpatica coloritura, a patto di trovarla sulla bocca del volgo (appunto) non su quella di uno come Fini, che, di solito, è piuttosto stilé. L'unica tuta che il presidente della Camera abbia indossato è quella da sub: non era quindi il caso che si sforzasse di trasformarsi in Cipputi. A meno che l'astuto Fini non abbia pensato che, vista la facile fama conquistata da Cambronne con una sola parola, valesse la pena di porsi sulle sue orme per contendere a Berlusconi il "feeling" con la plebe. Anche in questa ipotetica impresa, però, l'ex delfino del raffinatissimo Giorgio Almirante è stato frenato dalla propria estrazione alto borghese: il rude generale napoleonico, infatti, con la sua esclamazione aveva decisamente puntato sulla "sostanza", mentre Fini ha preferito privilegiare la "forma" della sostanza stessa.

mercoledì 18 novembre 2009

Gli Incrociati

A Genova c'è la chiesa dei Diecimila Crocifissi. I turisti che vi si recano pensando di poter ammirare diecimila "Cristi" di legno, restano delusi: il tempio è quasi spoglio e si chiama così perché è dedicato a diecimila soldati fatti crocifiggere dall'imperatore Adriano dopo che si erano rifiutati di sacrificare agli dei. L'episodio, vero o leggendario che sia, è stato riassunto, alla genovese, con un laconico ( o cinico?) sostantivo: gli Incrociati. E il quartiere in cui sorge la chiesa si chiama appunto Borgo Incrociati. E' l'ennesima banalizzazione dell'orrore, quella stessa banalizzazione che consiglierebbe di togliere davvero il Crocifisso dalle scuole: il bambino che lo vede tutti i giorni è lo stesso bambino che, fattosi adulto, scavalcherà con indifferenza, sul marciapiede, il corpo d'un uomo appena assassinato. Forse il Crocifisso in classe aveva un senso quando si diceva una preghiera prima d'iniziare le lezioni. Adesso che non si fa più, sarebbe meglio sostituire la sacra immagine con l''"Uomo di Vitruvio", quello stesso che figura sulle monete italiane da un euro. Per i non credenti sarebbe una raffigurazione assolutamente laica, addirittura scientifica; i cattolici potrebbero invece ritrovare facilmente, in quel disegno leonardesco, le linee del Crocifisso soppresso. E almeno segnarsi, all'antica.

giovedì 12 novembre 2009

Gratta e vinci

Cent'anni fa, Trilussa descriveva così i convenevoli tra due Sovrani: "E la regina?" "Allatta!" "E er principino?" "Succhia!" "E er popolo?" "Se gratta!". Oggi il popolo continua, se non a grattarsi, a grattare. Gratta i biglietti a tempo dei posteggi, i concorsi stampati sui sacchetti delle patatine fritte e, soprattutto, i tagliandi del "Gratta e vinci". Anche le classi abbienti grattano, ma con più moderazione, come si conviene quando ci si misura con i tartufi e il parmigiano reggiano: in questi casi, il termine più usato è "grattatina". Ora c'è una novità: nell'atrio della stazione Brignole è stata installata una grande macchina distributrice di "Gratta e vinci" da tre e cinque euro. E' più frequentata della cugina che emette biglietti ferroviari, ma ha causato un inconveniente agli occupanti di un vicino ufficio, separato dall'atrio da una grande vetrata: quasi tutti gli acquirenti dei "Gratta e vinci" hanno infatti una gran fretta di grattare e qualsiasi superficie rigida per loro va bene; figuriamoci una lastra di vetro a portata di mano. Così, stufi del raspamento, gli impiegati hanno esposto sul divisorio un grande cartello: "Chi gratta su questo vetro perde". Mi sono fermato sul posto una mezz'ora, ma non ho visto utenti del distributore disposti a sfidare la maledizione. Si sono appoggiati altrove. Hanno perso lo stesso.

venerdì 6 novembre 2009

Prima Tv

Distratto dalle celebrazioni di Ognissanti, ho lasciato scivolar via il settantesimo anniversario di un curioso evento, registrato dal Decimonono del primo novembre 1939. Il giornale, quel giorno, era pieno di titoloni sul "cambio della guardia" nel governo e nel partito fascista. L'annuncio più importante riguardava il "siluramento" di Achille Starace e la sua sostituzione con Ettore Muti; ma anche l'ascesa del maresciallo Graziani al vertice dell'Esercito era di grande rilievo. La notizia più ghiotta, ai nostri occhi del Duemila, si poteva però leggere a pagina 3 . Era su una colonna ed aveva questo titolo: "Il Duce assiste a una ricezione televisiva". Diceva il testo, datato Roma 31 ottobre:"Ieri il Duce ha assistito a Villa Torlonia, per la prima volta, ad una ricezione di trasmissione radiovisiva effettuata dalla stazione di televisione dell'E.I.A.R. di Monte Mario. Il Duce ha seguito con un apparecchio radio Marelli l'intero programma, allestito nello studio dell'E.I.A.R., interessandosi dei particolari della trasmissione". Se non avessi letto casualmente quel trafiletto, mai avrei potuto immaginare un incontro così strano e così in contrasto con le dimensioni storiche e culturali alle quali ci riferiamo solitamente. E' stato come uscire a passeggio per la città e incontrare Giulio Cesare in motorino.

venerdì 30 ottobre 2009

Due video

Settimana dominata da due video, quello sull'ammazzamento di Napoli e quello su Piero Marrazzo. Il secondo l'aveva visionato da tempo mezza carta stampata, ma nessun giornalista si era sognato di darne almeno sommaria informazione ai lettori. Ci sono servizi da giornale e servizi da cassetto, a quanto pare. Poi i direttori proclamano "Le notizie si dànno, sempre!". Su Marrazzo i vignettisti sono stati un po' fiacchi, eppure materia ce n'era: dalla "Guerra di Piero" di De André ("Giace sepolto in un campo di guano..") alle ferrovie ("Sono Marrazzo, datemi l'orario della Transiberiana" "Ma che fa, ci riprova?") agli apparati ("Il Presidente è stato tratto in inganno dalla targhetta dell'appartamento, c'era scritto Servizi Segreti Brasiliani"). Passiamo al video di Napoli: la vittima designata entra nel bar, posa il casco ed esce a fumare una sigaretta. Pam, pam e buonanotte. Due particolari non quadrano: nella mia vita ho visto centinaia di riprese del traffico napoletano, ma ben di rado ho scorto qualcuno con il casco; inoltre è quasi incredibile l'osservanza della legge sul fumo da parte di un tipo da galera. Vespa, ci faccia un "Porta a porta".

sabato 24 ottobre 2009

Due fischi

Quindici giorni fa non avrei scommesso un soldo sul futuro dello stadio Ferraris: ora, invece si profila la salvezza. In famiglia siamo contentissimi: mia moglie, da bambina, vedeva il campo (e la partita) dal terrazzo di casa, io ho avuto l'onore di calcare lo storico prato come arbitro di incontri minori e come segnalinee in confronti tra squadre più importanti. Sono anche titolare di un piccolo record: ho arbitrato, sul Ferraris, l'ultima partita con i due fischi. Mi spiego: una volta l'arbitro interrompeva il gioco con un fischio e lo faceva ricominciare con un altro sibilo. Poi la Federazione, mi pare nel 1951 o 1952, decise che un fischio solo bastava, tranne che per il calcio di rigore. Tutti gli arbitri si adeguarono, tranne me, che stavo lavorando fuori Genova e non avevo letto i giornali. Così, quando ricevetti la lettera con l'incarico di dirigere l'incontro minore che precedeva sempre la partita di serie A, andai e arbitrai con i due fischi. Il pubblico, molto più aggiornato di me, mi gridava di tutto e io non capivo il perché degli insulti. Spiegato l'arcano a fine partita, ci rimasi male. Adesso, però, mi tengo stretto il record: finirò in un museo?

lunedì 19 ottobre 2009

Calze

Settimana della calza quella appena trascorsa. La ditta Calzedonia ha reinterpretato l'inno di Mameli dedicandolo a inesistenti "Sorelle d'Italia" (chi scrisse "Homo homini lupus" aggiunse subito dopo: "Figuriamoci le donne"). Il giudice Mesiano, autore dell'astronomico conto nella causa Mondadori, si è fatto sorprendere dalla Tv mentre indossava calzini turchese. Non erano bucati sugli alluci come quelli, indimenticabili, del Capo della Banca Mondiale Paul Wolfowitz in visita alla moschea, ma hanno fatto ugualmente riaprire il teatrino del pro e contro, al punto che Franceschini li ha indossati a sua volta, dello stesso colore, per solidarietà con il tele-spiato. Berlusconi (figuriamoci se non c'entrava) è stato nel frattempo accusato di voler rivoltare la Costituzione "come un calzino". I blog commentano: " Ma cosa vuole quella mezza calzetta...". Intanto i terremotati dell'Aquila sono al gelo e invocano a gran voce il passaggio dalla politica del calzino a quella del pullover: "Fratelli d'Italia, la faglia s'è desta, mi serve una maglia di taglia modesta...". Speriamo che Benetton provveda presto. Almeno prima che si arrivi alla calza della Befana.

mercoledì 14 ottobre 2009

Annunci

Come tutte le persone anziane leggo con molta attenzione le necrologie a pagamento nei giornali: vi scopro sempre più spesso, deprimendomi, nomi di miei coetanei, ma vi trovo anche (orribile a dirsi) motivo di divertimento. Spesso, infatti, quegli annunci testimoniano il basso livello di buon gusto raggiunto dalla contemporaneità. Mi stupisco anzi che non esista ancora, in ogni città, uno "stilista dei necrologi" che, in cambio di un modesto compenso, riveda i testi dei superstiti per evitare irrisioni a danno dei defunti. Non leggeremmo più che "i figli annunciano la scomparsa dell'amata mamma signora Loredana T." e che la suddetta "mamma signora" era stata tanto attiva sul lavoro "fino al giorno in cui fu ingiustamente allontanata su iniziativa di persone a cui aveva dato fiducia". Necrologia o comunicato sindacale? Resta finora insuperato un annuncio funebre di due anni fa, scritto da un tifoso milanista: "Ma lo sai, nonna, che forse compriamo Ronaldinho?". Da allora, scruto ogni giorno il "Corriere della sera" nella speranza di leggere l'annuncio dell'anniversario: "Nonna, ma perché diavolo abbiamo comprato Ronaldinho?".

giovedì 8 ottobre 2009

La Petacci

I miei genitori, entrambi maestri elementari e quindi pubblici dipendenti, ritiravano lo stipendio in tesoreria il 27 del mese, giorno chiamato, burlescamente, di San Paganino . Se uno dei due coniugi era assente, l'altro poteva riscuotere per entrambi, presentando una specie di delega che si chiamava "biancosegno". Un nome curioso, derivato dalla formula iniziale della dichiarazione, inventata in chissà quale remota epoca della burocrazia: "Serve di biancosegno per il ritiro dello stipendio eccetera". Quasi sempre le retribuzioni venivano pagate in monete fresche di zecca e banconote nuovissime, oggetto di molta curiosità da parte di noi bambini. Una volta mia madre mi regalò cinque lucidissime monetine da venti centesimi, che portavano su una faccia il ritratto del Re e sull'altra una bella testa femminile con il fascio littorio. Mostrai con orgoglio il mio piccolo tesoro a un amico e, indicandogli il profilo di donna, gli dissi: "Vedi, questa è l'Italia". Mi rispose ridendo: "Macché, quella è la Petacci!". "E chi è?" "Chiedilo al Duce!". Invano cercai ulteriori lumi, c'era chi ignorava tutto e chi non voleva parlare. Dovetti attendere un paio d'anni, fino alle foto di piazzale Loreto, per sapere chi fosse la misteriosa Petacci. Avevo in tasca una di quelle monetine con il volto di donna, ma per tentare un confronto di sembianze mi toccò capovolgere il giornale, perché la poveretta era appesa a testa in giù.

domenica 4 ottobre 2009

El Tanguero

Santoro, se crede di avere l'esclusiva sulle escort, si sbaglia. Intervengo anch'io per segnalare che il termine inglese, ormai familiare a tutti, ha una bella cuginanza con la parola latina scortum, che significava, guarda caso, prostituta. Ma passiamo ad argomenti più elevati: sul Decimonono di oggi è uscito questo annuncio: "Gentiluomo medietà, libero professionista, alto, ottima presenza, colto, serio e corretto, cerca signora-ina dell'Est europeo o italiana, max quarantottenne, preferibilmente alta, anche principiante, per formare coppia Tanguera, per lezioni di Tango e partecipazione a Milongue. Garantisce, e pretende, massima educazione, serietà, rispetto e riservatezza". Il numero di telefono non ve lo do, posso solamente assicurare che non è quello di Palazzo Grazioli. Vedete un po' dove sono andati a finire il rispetto e il riserbo: nel tango. Eppure, quando avevo diciotto anni e si facevano le festicciole in casa di un amico portando i dischi, le ragazze si guardavano bene dall' accettare un ballo all'argentina, con intrecci di braccia e di gambe e con finti arretramenti di piedi seguiti da improvvise avanzate. Al primo accenno partiva un inequivocabile spintone per ristabilire le distanze. Adesso sono in pensiero per il gentiluomo: troverà la sua dignitosa compagna? Beh, se qualche pietosa amica vuole quel numero di telefono, mi faccia una e-mail.

mercoledì 23 settembre 2009

Carristi

Dolore per i sei morti di Kabul e un amaro ritorno nella memoria. Io l'ho vista in diretta, tanti anni fa, la morte dei militari nei blindati. Ero su una strada che andava al lago di Bolsena, al bivio che porta a un paese chiamato Cellere. Davanti a me procedeva un carro armato leggero, in esercitazione. Il conducente si fidò troppo del bordo della strada, il terrapieno cedette e il carro si capovolse. Quando raggiunsi il punto della disgrazia l'equipaggio stava strisciando fuori da una botola: tutti incolumi, tranne l'uomo in torretta che era rimasto schiacciato: di lui si vedevano solamente le gambe. Forse aveva tentato un balzo in extremis mentre il carro precipitava. Arrivarono gli inutili soccorsi, il povero morto fu recuperato e portato in un piccolo obitorio (mi raccontarono poi che qualcuno, quella notte, gli rubò gli scarponi). Sconvolto, me ne stavo in silenzio a cavallo della moto e pensavo alla mia visita di leva, qualche anno prima: al momento della selezione attitudinale l'ufficiale mi aveva chiesto in quale corpo preferivo essere arruolato. "Nessuno - gli avevo risposto - sono orfano di guerra, non farò il soldato". "La devo assegnare comunque - aveva ribattuto - in caso di conflitto partirà ugualmente. La metto nei carristi, almeno sarà al sicuro dalle pallottole". Oggi carrista significa Afghanistan, autobombe, attaccanti suicidi: chi poteva, allora, immaginare simili scenari?.

giovedì 17 settembre 2009

Mi perplimo

Alla tenera età di settantasei anni ho imparato un nuovo verbo italiano: perplimersi. Pare che il neologismo sia italiano dal momento che l'ha usato l'autore di una lettera pubblicata dal "Secolo XIX". Alla prima lettura mi sono detto "E' il solito refuso di stampa"; poi però ho constatato che nel pur breve testo per altre due volte era stata usata l'espressione "mi perplimo" per dire "mi rammarico, mi lamento". Non è il caso di scandalizzarsi troppo, nella lingua corrente le parole nascono e muoiono in continuazione: fino a un un paio di secoli fa, invece di dire "aurora" la gente preferiva dire "dilùcolo" e il primo che cambiò termine fu sicuramente guardato con stupore e rimproverato. Certo che il "mi perplimo" è venuto alla ribalta in un frangente molto delicato per la nostra lingua: proprio ieri un rappresentante italiano ha fatto un intervento in napoletano nell'aula del parlamento europeo. Nello stesso giorno ho scoperto che persino Gabriele D'Annunzio, il Vate che indossava l'italico idioma come un morbido, aderentissimo guanto, cedeva al dialetto, dal momento che una delle sue leggendarie carte da lettera intestate portava il motto veneziano "Ti con nu, nu con ti". A quel punto mi sono concesso la licenza di esclamare in genovese: "Nu gh'è ciù un dìo de netto!", cioè "Non c'è più un dito di pulito!". Però mi perplimo di essermi lasciato andare.

venerdì 11 settembre 2009

La televisione

Di chi parlare se non di Mike? Quando cominciò "Lascia o raddoppia" nel mio caseggiato c'era un solo televisore, quello della mia dirimpettaia Mercedes, con la quale avevo un rapporto particolare di amicizia: portavo infatti quasi ogni giorno la sua cagna pointer, Clea, a fare grandi corse su per i monti alle spalle della città. Ero quindi invitato d'onore, con madre e sorella, al quiz del giovedì, che, per la verità, non m'interessava gran che. Dopo le prime meraviglie di fronte a concorrenti che sembravano pozzi di scienza, avevo infatti scoperto che per ogni materia c'era un libro che faceva testo in caso di controversia; ne avevo dedotto che le domande venivano tratte logicamente da quel libro e che era quindi sufficiente memorizzare quel volume per essere sicuri di azzeccare le risposte. Scoperto il meccanismo, l'interesse era rimasto quasi totalmente affidato all'originalità dei concorrenti, che non sempre raggiungevano i livelli di simpatia toccati dal "dandy" Marianini, vero mattatore del teleschermo. Finito il quiz, Mercedes avrebbe volentieri spento la Tv per andare a dormire, ma io facevo finta di nulla e dimostravo grande interesse per il telegiornale: sapevo che alla fine avrebbero fatto vedere i gol di una delle più recenti partite di serie A. Quella sì che era una ghiottissima novità, la dimostrazione che la Tv ci avrebbe davvero cambiata la vita.

venerdì 4 settembre 2009

Il Negus

Nel 1970 vissi per un paio di giorni accanto a un grande protagonista della storia mondiale, il Negus Neghesti Ailé Selassié, imperatore d'Etiopia. Lui visitava Santa Margherita Ligure e Genova, io facevo l'inviato al seguito. Comunicavamo tramite i generali della Corte, che parlavano tutti perfettamente l'italiano, essendo ex-graduati del nostro esercito coloniale. Il Negus era già stato in Italia, nel 1924, accolto con tutti gli onori da Mussolini; quel Mussolini che, dodici anni dopo, gli avrebbe scippato il trono e il regno. Nonostante queste fosche vicende, Ailé Selassié dimostrava con ogni parola ed ogni gesto un profondo amore per l'Italia e gli italiani; ammirava il paesaggio e i monumenti, ringraziava chi lo applaudiva, stringeva mani e regalava medagliette; a tutti donava un lampo dolce dello sguardo. Quel segno di mitezza e d'affetto mi ritornò in mente cinque anni dopo, quando appresi con grande dolore che l'Imperatore era stato deposto, imprigionato e strangolato da una fazione dei suoi connazionali. Perché ne riparlo oggi? Perché la peggiore immagine della mia estate è stata quella di Gheddafi (altra vittima del nostro colonialismo) che atterra sul suolo italiano portando con arroganza una fotografia appesa al bavero. Ci mancava il sonoro con la voce del marchese del Grillo: "Io so' io e voi non siete un c...". Come diceva il conte di Buffon, lo stile rivela l'uomo.

venerdì 28 agosto 2009

La terza

Dagnino, anziano usciere del Decimonono, aveva una mano di legno. Con l'altra cercava la sua rivincita di disabile intagliando noci per ricavare graziosi cestini completi di manico, che poi regalava ai giornalisti. Era attento a quanto si diceva nella stanze redazionali e dall'ascolto aveva tratto la convizione che tutte le più importanti notizie facessero capo alla terza pagina, quella letteraria. Non mancava di buoni motivi poiché spesso le polemiche tra colleghi riguardavano "quelli della terza" accusati di fare la bella vita e di guardare dall'alto in basso i cronisti e gli sportivi. Effettivamente, arrivare a scrivere in terza pagina era un traguardo, lo tagliava chi aveva una scrivania nella "stanza del pensiero" e, magari come assegnatario di una rubrica, godeva di una specie di usucapione. Se qualche estraneo giungeva alla meta, era solamente per un ordine perentorio del direttore. Dagnino, ignaro di corsivi e di elzeviri, aveva dunque concluso che la terza pagina era il "non plus ultra" del giornalismo. Così, quando i corridoi si animavano di colpo perché qualcuno annunciava, gridando, l'assassinio di uno statista o l'affondamento di una nave, tra i concitati scambi di idee dei redattori si levava il vocione di Dagnino che esclamava in dialetto: "Questa scì che a l'è bella, a mettemmu in tersa!". Dagnino è passato, ma, nel giornale, la sua frase "storica" è rimasta viva per anni e anni.

venerdì 21 agosto 2009

Il caffè

Il rito del caffè offerto o preso in compagnia è sempre stato diffusissimo anche a Genova. Oltre quarant'anni fa si accettava l'invito con una clausola fissa: "Grazie, però andiamo da Tubino". Effettivamente in quel bar di via Venti Settembre (che ancora esiste) si beveva il miglior caffè della città, magari disputando se il merito fosse della macchina espresso o di una segreta miscela. Il signor Tubino, proprietario del bar, era un grande importatore di caffè, con un vasto magazzino nel porto franco, cioè in una zona dove si poteva lavorare il prodotto prima di rispedirlo all'estero, oppure farlo entrare in Italia pagando i tributi. In quest'ultimo caso i sacchi di caffè superavano un varco tra due grandi battenti di ferro che scorrevano su rotaie. Alla sera i portelloni venivano chiusi e sulla linea di contatto si ponevano i sigilli doganali, da rompere il mattino seguente. Il sistema sembrava inattaccabile; invece si scoprì che il signor Tubino e i suoi complici, grazie alle rotaie troppo lunghe, nella notte facevano scorrere i due portelloni uniti nelle stessa direzione, senza rompere i sigilli: si apriva così, dalla parte opposta, un passaggio attraverso il quale tonnellate di caffè entravano in Italia senza pagare una lira di tassa. Insomma, il caffè Tubino era buono anche perché aveva il malizioso retrogusto del contrabbando.

lunedì 17 agosto 2009

Cannonate

Il porto di Genova, anche ora che hanno tolto le cancellate, rimane estraneo alla città: è un corpo a sé stante, con i suoi riti e i suoi segreti. Un tempo era governato da un Consorzio autonomo, che legiferava per conto proprio: ora è sparita l'autonomia e il presidente deve tener conto sia delle leggi dello Stato, sia delle istituzioni che lo rappresentano. E' un obbligo assai sofferto da un settore in cui, da sempre, dominano le corporazioni. Per dare un'idea dell'ambiente, una sola volta ho sentito un compagno di scuola o di giochi dire "Voglio andare a lavorare in porto". In quell'unica occasione chi parlava era figlio di un portuale. Ho rischiato anch'io di entrare nel giro, mio zio Albino Gordesco era infatti commesso di bordo e, non avendo discendenti diretti, aveva la possibilità di farmi assumere al suo posto, al momento della pensione. Girai alla larga e feci bene, tutto sommato; conservo però con orgoglio il "lattone" dello zio, la sua tessera di lavoratore portuale chiusa dentro a una custodia di metallo, antipioggia (una protezione teorica, perché da sempre alle prime gocce il lavoro sulle banchine portuali si ferma). Il presidente del Consorzio dei nostri tempi è dunque un cireneo condannato a sgobbare duramente. Forse non sa neppure che ai suoi predecessori "autonomi" spettavano gli onori di un Capo di Stato, comprese le cannonate a salve delle navi da guerra.

venerdì 7 agosto 2009

Pietanzina

Con un gruppo di carissimi ex compagni di lavoro ho raggiunto una trattoria dell'entroterra genovese, divenuta famosa per i suoi sontuosi primi e secondi. Dopo una lunga attesa, ognuno di noi si è trovato davanti un piatto di enormi dimensioni, al centro del quale stava una pietanzina simile ai lumini che si mettono al camposanto. Messo in allarme da una serie di colorite esclamazioni, il titolare del locale è accorso e, con accento trionfante, ci ha rivelato di aver assunto un cuoco della "Nouvelle Cuisine", destinato a dare impulso agli affari: "Vi abituerete subito al cambiamento - ha concluso - e ritornerete presto". "Certamente" gli abbiamo risposto, facendo il gesto dell'ombrello. Questa "nuova cucina" non è poi tanto nuova, dal momento che quasi cinquant'anni fa il giornalista Ernesto Mombello, famoso gastronomo, ne enunciava già i princìpi di base: "Non bisogna mangiare, ma assaggiare. Al primo boccone il gusto nuovo vi delizia, al secondo vi appaga, al terzo non è più nuovo e voi vi mettete a chiacchierare con il commensale vicino. Da quel momento in poi ingurgitate senza accorgervene e vi appesantite inutilmente". Tutto logico, razionale. Non ha proprio senso che, quando uscite con gli amici, ritorniate a casa sorridendo, accarezzandovi lo stomaco e dicendo "Ho fatto una mangiata...".

giovedì 30 luglio 2009

L'abilità

In tempi più brutali li definivano in modo eccessivamente specifico: sordi, muti, zoppi e ciechi. Poi si passò al nome collettivo di handicappati. Seguì un termine più smorzato, disabili, sostituito da un nome incoraggiante, diversamente abili. Il più diversamente abile che mi sia capitato di conoscere era un disoccupato di un paesino viterbese, Cellere. Me lo mandò un malfidato collocatore comunale per rimpinguare un gruppo di disoccupati con i quali stavo mettendo in luce la città etrusco romana di Vulci. Il nuovo arrivato giunse in coppia con un compaesano: erano sempre fianco a fianco, parlottavano in continuazione e picconavano l'interramento in perfetta sincronia. Lui alto, secco e rosso di capelli, l'altro bassotto e moro. Per un po' tutto andò liscio, poi il piccone del rosso sfiorò un polpaccio d'un operaio che stava passando. "Ahò - gridò la mancata vittima - che sei, cecàto?". "Perché, nun lo sapevi?" rispose il rosso. Così scoprii di aver assunto un operaio cieco per ritrovare preziose e sacre vestigia dell'antichità. Che fare, licenziarlo? Preferii incaricarlo di provvedere, con il suo complice, all'approvvigionamento di acqua potabile per il cantiere. Con la botticella se la cavava benissino. Oggi si parla spesso delle pensioni ai finti ciechi, ma un finto vedente è capitato solo a me.

giovedì 23 luglio 2009

Il piattino

In cima a vico Casana, anni fa, sostava un cieco con la fisarmonica. Cantava in falsetto vecchi ritornelli e campava con le elemosine dei passanti. Un giorno mi accorsi che aveva messo sul suo strumento un cartello con una scritta a grandi caratteri: "Sono solo, non date niente a nessuno". Gli chiesi il perché di quell'avviso e mi raccontò che da un po' di giorni un altro poveraccio si metteva di nascosto al suo fianco con un piattino e intascava le offerte che la gente credeva di fare al suonatore. Era stato il rumore delle monete sul piattino a far scoprire il trucco. Le disavventure del fisarmonicista non finirono lì: qualcuno gli fece credere che con la sua voce da tenore di grazia avrebbe avuto un gran successo negli Stati Uniti. Certo, c'era il problema del visto d'ingresso, ma si poteva rimediare con un viaggio clandestino, sempre che ci fossero stati i soldi per ungere chi di dovere. Il suonatore si lasciò convincere e tirò fuori i suoi risparmi. Gli imbroglioni, dopo una lunga serie di finti preparativi dell'espatrio, una notte l'accompagnarono in porto e lo fecero scendere nella stiva di una nave in disarmo, dove l'abbandonarono. Dei guardiani lo trovarono per puro caso giorni dopo, ormai stremato. Non aveva gridato perché credeva di essere già in navigazione. Si riprese e ritornò a cantare e suonare nel vicolo. Melodie sempre più tristi. Poi morì.

giovedì 16 luglio 2009

La firma

Abbiamo letto sui giornali che Elio Letizia, padre di Noemi, ha usufruito della prescrizione per tirarsi fuori da un processo per bustarelle. Una faccenda da molti milioni di lire, secondo l'accusa. I fatti risalivano al 1993, quando il Letizia lavorava presso l'assessorato all'Annona di Napoli e si occupava del rilascio di licenze di commercio. Sarebbe una storia poco interessante, se non ricalcasse una vicenda accaduta a Napoli, nell'Ottocento, a un funzionario del regno borbonico che aveva lo stesso incarico di Letizia. Il pubblico dipendente, chiesta udienza a re Franceschiello, si era umilmente lamentato con il sovrano per la pochezza del proprio stipendio: "Dopo tutto - aveva aggiunto - ho un ruolo non secondario nell'amministrazione del Regno, io sono quello che firma le licenze di commercio". "E tu non firmare" gli consigliò il re, congedandolo. L'impiegato mangiò la foglia e mise a frutto il suggerimento. Mesi dopo, Franceschiello, mentre passava in carrozza per il centro di Napoli, vide un magnifico tiro a quattro che superava in fasto il cocchio reale: incuriosito si sporse dal finestrino e riconobbe nell'elegante passeggero l'addetto alle licenze di commercio. Allora gli gridò: "Firma, firma, o ti mando a Gaeta!" cioè in galera. Evidentemente Franceschiello considerava illecito non il furto, ma l'eccesso di refurtiva. E i Franceschielli di oggi, come la pensano?

mercoledì 8 luglio 2009

Arriva Pinuccia

Sono i giorni della "rumenta", i genovesi hanno appena pagato l'onerosa tassa sui rifiuti ed ecco che si annuncia un rimpasto della giunta cittadina, con l'arrivo di un nuovo assessore all'ambiente, Pinuccia Montanari. E' una temuta rappresentante dei Verdi e ha pensato bene di trasferire a Genova i suoi metodi (raccolta differenziata, spazzatura quasi zero), dopo aver racimolato nelle ultime elezioni a Reggio Emilia (dove ha imperato per cinque anni) un misero bottino di 70 voti di preferenza. Dicono che circolare con in mano un sacchetto di rifiuti diverrà più rischioso che andare a spasso con una retina piena di bombe a mano. Era dai lontani tempi (anni Sessanta) di Fernanda Pedemonte che l'igiene cittadina non conosceva simili tempi duri. La professoressa Fernanda era divenuta il terrore degli alimentaristi, ai quali aveva imposto peraltro regolette ovvie, come l'uso della bustina copri capelli e la separazione tra le dita che maneggiavano il prosciutto e quelle che contavano i soldi. La battaglia più originale della tutrice della salute pubblica aveva avuto come obiettivo la cordicella elastica che teneva (e tuttora tiene) compatto il pollo cucinato allo spiedo: il ragionamento era semplice, il caucciù bruciato dalla fiamma diventa cancerogeno. Non si capisce in base a quale contro-ragionamento continuiamo, da allora, a trovarci nel piatto quella gomma "flambée". Che ne dirà la signora Pinuccia?

venerdì 3 luglio 2009

Il bacio

Vedere per strada innamorati che si baciano è ormai un fatto usuale. Negli anni Cinquanta, invece, ancora non conveniva: c'era l'infrazione legale e, inoltre, le ragazze temevano di essere viste da qualcuno che le conosceva. Così ci si rifugiava nei cinema, nei portoni, magari negli ascensori. Non mancava, però, chi sfidava più apertamente leggi e convenzioni. Capitò che una coppietta ebbe l'audacia di baciarsi sulla spiaggia proprio davanti a un tizio che stava prendendo il sole: che sfortuna, era un pretore. Identificazione, denuncia, processo, condanna a un'ammenda. Il tutto fu puntualmente riferito dal cronista giudiziario del "Lavoro", Giuseppe Gino Martini, che scrisse un resoconto assolutamente neutro ma poi scese in tipografia e si mise d'accordo con il linotipista incaricato di comporre quelle righe: "Qui dove c'è la erre ci metti invece una enne, capito?". Così il giorno dopo i lettori del "Lavoro" poterono leggere: "Al termine del breve dibattimento il pretone ha condannato i due fidanzati a un'ammenda". Apriti cielo, il magistrato s'infuriò e minacciò un procedimento; ma il direttore del giornale, presentandosi con il rotolo degli originali degli articoli, potè dimostrare, carta alla mano, che Martini aveva scritto pretore e non pretone. Nessuna ingiuria, quindi, ma solo uno sfortunato incidente. Proprio come quello del bacio davanti al giudice.

venerdì 26 giugno 2009

I bigatti

Di questi tempi, quando ero ragazzo, i contadini padani mettevano ancora i mobili di casa sull'aia e cominciavano a vivere all'aperto: l'interno della cascina veniva infatti occupato dai graticci per i "bigatti", i bachi da seta che furono poi resi obsoleti dall'avvento del nylon. Io feci in tempo a partecipare a una delle ultime "campagne", che iniziavano ponendo su foglie di gelso la "semenza", composta da bigatti tanto piccoli da risultare quasi invisibili. Cominciava allora il miracolo della crescita: si udiva nelle stanze un ronzio provocato da migliaia di minuscole mandibole che facevano sparire a poco a poco le foglie di gelso, come in un gioco di magia. Poi, giorno dopo giorno, i bigatti diventavano visibili, sempre più grossi, bianchi e grassi, finché non facevano il loro bozzolo, filando la preziosa seta. Il mio compito consisteva nell'andare a procacciare sacchi di foglie, lungo gli argini dove i gelsi segnavano i confini e producevano grosse more, meno gustose di quelle dei roveti. Quando finirono i bigatti, finirono anche i gelsi: a milioni vennero sradicati, i contadini dicevano che ormai non servivano più e facevano dannosa ombra alle semine. Di quell'esperienza mi è rimasto soprattutto il ricordo del ronzio segreto di migliaia d'invisibili mandibole: talvolta mi pare di riascoltarlo, specie quando qualcuno parla di buchi nei pubblici bilanci.

martedì 23 giugno 2009

La movida

Proteste a Genova e in altre grandi città per la "movida" notturna, che lascia strascichi di bottiglie rotte e di portoni presi per vespasiani. Questo rumoroso e inquinante raduno di giovani è senza dubbio un segno di malcostume, ma, al contrario di quanto si crede, non è figlio del nostro tempo: esisteva già nell'Ottocento, tanto che Genova aveva creato un nucleo di vigili addetti alla repressione delle licenze orinatorie notturne. I gaudenti acculturati li chiamavano "guardie della speranza", giocando tra "elpìs" (appunto speranza, in greco antico) ed "el pis" che non ha bisogno di traduzione. Una sera il giornalista Gandolin (ottima forchetta e valoroso bevitore) scommise che avrebbe innaffiato una strada del centro addirittura con il beneplacito d'un sorvegliante. All'uscita da una trattoria di salita Santa Caterina si accostò al muro e versò in terra una bottiglietta d'acqua che si era messa in tasca. Subito accorse un vigile che lo accusò d'aver fatto pipì illegalmente: "Lei si sbaglia - rispose Gandolin - anzi, mi lasci andare perché proprio mi scappa". "Figuriamoci - ribatté il sorvegliante - l'ha appena fatta, l'ho visto io. Provi a rifarla, se ci riesce, l'autorizzo". "Come desidera" esclamò Gandolin e allagò la salita sotto gli occhi dell'esterrefatto tutore. Penso che il buon guardiano abbia passato il resto della vita a cercare la soluzione del mistero.

giovedì 18 giugno 2009

A denti stretti

Parliamo un po' di Debora Serracchiani, promossa a pieni voti dalle urne europee. La candidata del PD merita una citazione al merito, non tanto per aver ottenuto quasi 175mila preferenze, quanto per aver convinto 175mila italiani a scrivere sulla scheda il suo non facile cognome con il giusto numero di erre e di ci: il che, in un paese che soffre molto per l'analfabetismo di ritorno, è davvero un grande risultato. La Serracchiani ha anche il pregio di sembrare un'adolescente; la si direbbe una Sabrina un po' più in carne, invece è una signora dalla piena maturità: detto in sintesi, non è una Noemi ma una Naomi, nata nel 1970 come la "Venere nera". Un tratto caratteristico della neo onorevole è quello di parlare sempre a denti stretti, con la mandibola inchiavardata. Supera in questo il segretario del PD, Franceschini, che ha un po' lo stesso tic ma qualche volta, memore delle sue origini ferraresi, una bella risata a bocca aperta se la fa. Debora, invece, forte della sua voce chiarissima, non cede e si limita a ridere piacevolmente tra gli incisivi. Potrebbe essere una genovese "ad honorem": la gente della Lanterna era celebre una volta per il suo "strinsu i denti e parlo cieo". Ora aspetto di scoprire come la nuova deputata europea se la caverà al momento decisivo: non quando D'Alema parlerà al congresso PD, ma quando il dentista le dirà "Apra!".

sabato 13 giugno 2009

Il velista

Ricordi senza lacrime per il mio sorridente amico e collega Beppe Barnao, che a 84 anni è stato sollevato dal fastidio del bastone, lui che aveva corso, a vela, tutti i mari del mondo. L'hanno commemorato in molti per i suoi meriti sportivi e giornalistici; nessuno però - credo - ha raccontato che Beppe, prima di dedicarsi totalmente alla carta stampata, era stato un amatissimo maestro elementare. Gli era toccata una classe nella scuola Garaventa, popolata di figli degli "ultimi"; lì, dopo un difficile approccio, s'era inventato un concorso che aveva scatenato l'entusiasmo dei ragazzi: "Chi è più bravo a lavarmi la macchina?". Gli allievi avevano scoperto il piacere di un lavoro ben fatto e lui ci aveva guadagnato l'auto più lustra del quartiere. Come tutti gli uomini di mare, Barnao nascondeva un po' di pirateria nel sangue, amava sfidare le regole. Quando fu inventata la "Vanoni" (antenata dell'attuale "Unico") rifiutò categoricamente di compilare la dichiarazione e rimase per parecchi anni, indisturbato, nel limbo dei contribuenti. Poi, in occasione di un condono, andò al palazzo delle Finanze per costituirsi nelle mani del fisco. Si fece amici, immediatamente, tutti gli addetti, che lo coprirono di consigli per pagare il minimo. Il direttore gli confidò: "Se lei non si fosse presentato, non l'avremmo mai scoperto". "E' giusto così" rispose Beppe. Ma, voltato l'angolo, si morse la mano.

lunedì 8 giugno 2009

La qualunque

La bersagliatissima Noemi, smentendo l'ex fidanzato, ha dichiarato "Gino s'è inventato la qualunque". A quel punto sono entrato in crisi, perché un simile modo di esprimersi mi giungeva del tutto nuovo. Ho atteso invano reazioni: che so, un articolo di Severgnini, l'annuncio di un aggiornamento del dizionario Devoto-Oli. Invece niente. Ha aumentato il mio sconcerto la constatazione che "la qualunque" gode in Internet di ben 1.470.000 citazioni. Mi è sembrato di essere il pastore Aligi, quello che dormì settecent'anni. Il colpo di grazia me l'ha dato un autista intervistato ad "Anno Zero" : parlando della variabilità dei carichi che trasporta, ha detto "Sul mio camion ci può essere la qualsiasi". Sempre più incuriosito ho indagato via computer e ho scoperto che "la qualunque" è un'espressione tipica palermitana e che esiste anche la macchietta dell'onorevole Cetto Laqualunque creata dal comico Albanese. Siccome questo folle personaggio viene rappresentato nella rubrica serale di Fabio Fazio, mi sono finalmente spiegato il perché del tranquillo silenzio dei commentatori: evidentemente guardano tutti la trasmissione di Fazio. Io, invece, no. Ben mi sta.
P.S. La giovane donna delle cui dolorose vicende vi ho parlato nel blog "Le dita" non ce l'ha fatta. Purtroppo nel mondo reale succede che una bella favola non abbia un lieto fine.

mercoledì 3 giugno 2009

Contro corrente

Si è spento, ancora in buona età, il giornalista Mauro Bocci, mio compagno di lavoro per parecchi anni. Era un personaggio d'indubbio ingegno, intessuto però di ostinazione nell'andare contro corrente, nell'evitare il lato normale della vita. Dopo aver elaborato a lungo un romanzo scritto con un linguaggio sperimentale del tipo "Horcynus Orca", lasciò il giornale pensando che un lavoro fisso e un ottimo stipendio fossero freni insostenibili per l'espansione della sua creatività. Negli ultimi anni l'avevo perso un po' di vista, poi l'incontrai, ma invece di elencarmi successi letterari mi parlò del figlio che gli era nato e gli occupava la vita. Di Bocci ricordo un curioso siparietto messo in atto quando Bettino Craxi, allora Presidente del Consiglio, venne in visita al Secolo XIX. Naturalmente gli andammo tutti incontro per salutarlo e fargli gli onori di casa; tutti tranne Mauro che rimase ostentatamente seduto davanti alla macchina da scrivere. Craxi se ne accorse, ci piantò in asso e andò ad attaccare discorso con il renitente. Bocci rispose a monosillabi, quasi senza guardare l'interlocutore, tanto che Bettino si scoraggiò e ritornò da noi, ospiti meno scorbutici. Quando la visita finì, ricordai a Mauro, sorridendo, lo stornello romanesco su "Giovannino lo speziale" che, mentre suonavano l'inno reale, "essenno socialista restò a sede". Rispose: "Mi dai torto?" "T'importerebbe?" "No" "E allora...".

venerdì 29 maggio 2009

Corridoio 24

Va di moda il "corridoio 24" che collegherà su rotaia Genova e Rotterdam, porti essenziali per i traffici tra l'Europa e il resto del mondo. Il corridoio si farà, i protocolli sono firmati, pare addirittura che ci siano anche i soldi. Nessuno si chiede, tuttavia, quale vantaggio potrà derivare da quel collegamento. Mettiamo che l'architetto vi mostri una piantina della vostra nuova casa e vi faccia notare, come idea geniale, un corridoio disegnato per unire direttamente i due bagni. Gli chiedete: "Ma a che serve, in pratica?" e lui vi risponde: "Supponga che nel primo bagno sia finito il dentifricio, percorrendo quel corridoio lei può rimediare facilmente al contrattempo". A quel punto voi pregate il professionista di voltarsi e lo prendete a calci. Nessuno si è invece preso la minima pedata quando ha proposto di collegare Genova e Rotterdam, porti da sempre in concorrenza e animati da un reciproco, sincero odio. Quel corridoio potrà servire al massimo per far giungere in uno dei due scali un container sbarcato per errore nell'altro: un caso dentifricio, appunto. In realtà, ciò che fa gola è la prima stazione intermedia del corridoio: ufficialmente parliamo di Rotterdam e non di Frugarolo o di Valmadonna per non mettere in dubbio il nostro prestigio mondiale e, soprattutto, per incamerare fondi comunitari; ma la vera meta europea di Genova continua a essere il vigneto di Paolo Conte.

domenica 24 maggio 2009

Il malloppo

La storia dei due neozelandesi fuggiti con dieci milioni di dollari versati per sbaglio sul loro conto corrente ha avuto una risonanza mondiale. Commentandola, una giornalista del "Corriere" ha fatto la sua bella figura perché ha rivelato di aver ricevuto un "regalo" analogo dalla sua banca e di aver subito segnalato l'errore. Io farò invece una figuraccia perché ammetto d'aver tifato per un mio compagno di lavoro che, invece, i soldi proprio non li restituì. Accadde in era pre-computer, quando i movimenti si registravano su schede cartacee. L'onesto (almeno fino ad allora) lavoratore, che guadagnava trecentomila lire al mese, si trovò sul risicato conto bancario un versamento di quattordici milioni. Li ritirò immediatamente, ma non fuggì come i neozelandesi, si mise semplicemente in attesa: "Quando me li chiederanno - ragionava - pretenderò una percentuale per il disturbo ricevuto". Accadde invece l'incredibile: nessuno reclamò il malloppo. O meglio, chi aveva perduto i soldi strillò, eccome; la banca, però, non riuscì a scoprire dove fosse finita la somma. E questo - si suppose - perché l'indagine era stata fatta solamente sui conti che avevano una giacenza superiore all'entità del denaro scomparso, saltando la scheda del mio amico che in quel momento era quasi in rosso. Come finì? La ricchissima banca risarcì il danno e il mio amico estinse il mutuo.

martedì 19 maggio 2009

Pediluvio

Tutti (penso) mettiamo da parte, durante l'anno, qualche pagina di giornale che contiene un riferimento alla nostra persona oppure una notizia "da conservare". La pagina finisce in un cassetto e non la guardiamo più per anni, fino a quando non salta fuori durante la "settimana dei buoni propositi" caratterizzata dallo slogan "Adesso butto via tutto". Durante la revisione, le notizie che allora vi sembravano indispensabili non sembrano più tali, ma la pagina rimane ugualmente nel cassetto, perchè in un angolo fino ad allora ignorato avete scovato altre righe che vi hanno riaperto un mondo ormai remoto. Mi è capitato ieri, con una pagina del Decimonono del 3 gennaio 1975: vi ho letto questo incunabolo delle diete per dimagrire che adesso dilagano: "Alle otto un tè senza zucchero, poi un prolungato lavaggio delle mani in un bacile colmo di tè. Verso le dieci un cucchiaino di miele e, un'ora dopo, ancora un bicchiere di tè amaro. Verso mezzogiorno cento grammi di pesce o di carne lessata senza sale e, prima di cena, il solito cucchiaino di miele con un prolungato pediluvio nel tè; poi cento grammi di verdura lessata". Cura riservata agli uomini, assicurata la perdita di dieci chili in quindici giorni. Penso che, per i seguaci della prescrizione, sia insorto il problema di uscire dalla vaschetta del pediluvio: come farcela, con quella debolezza?

giovedì 14 maggio 2009

Le dita

Lo incontro tutte le mattine, quando vado a comprare i giornali. L'interrogo con lo sguardo e lui si sfoga. Sua moglie ha avuto una grave crisi cerebrale, i medici la tengono in coma farmacologico ma non assicurano che quello stato sarà reversibile. Ieri un nuovo racconto: "Sono andato a trovarla come ogni giorno e le ho parlato a lungo, anche se sapevo che era fuori conoscenza. Poi ho appoggiato una mano sul lenzuolo, accanto alla sua. Improvvisamente lei ha mosso le dita e, piano piano, è venuta a cercare le mie. E' uscita dal buio". Quel tocco dall'ignoto potrebbe farmi evocare il mito di Orfeo, di Euridice. Mi accorgo invece di non accontentarmi, per una volta, di parole antiche; neppure il ricordo di Eluana mi assorbe del tutto la mente. Penso piuttosto al mistero della vita del giovane uomo che ho di fronte: ha incontrato la sua donna per caso, dall'altra parte del mondo, a Buenos Aires. Si sono innamorati e lui se l'è portata a Genova. Adesso il male, improvviso, devastante, ha sconvolto la loro vita, ma ha dato anche la riprova di quella scelta reciproca: lei ha sconfitto il coma per cercare le dita di lui. Chiedete a uno scienziato quale sia il segreto di queste unioni così totali: vi parlerà senza dubbio di affinità genetiche, di compatibilità chimiche. Lasciatelo perdere, chiedete a un poeta: vi convincerà che l'amore esiste davvero.

sabato 9 maggio 2009

Il robot

Scusate se mi do delle arie, ma credo d'aver conquistato un posticino nel Guinness dei primati: probabilmente sono stato il primo a fare la "supercàzzola" a un robot. E' successo mentre cercavo di mettermi in contatto con un ufficio comunale di Genova per sapere se erano arrivati i moduli della dichiarazione dei redditi. Fino a un paio d'anni fa sulle "Pagine bianche" venivano elencati i numeri ufficio per ufficio ed era una gran comodità; ora invece c'è un numero unico che fa capo a un supercentralino automatico governato da un robot. Ho fatto la chiamata e una voce registrata mi ha ingiunto: "Dica a quale ufficio vuole essere collegato". L'ho detto. Il robot ha replicato: "Ripeta, per favore". A quel punto mi è scattata la voglia di una zingarata e - memore di Tognazzi - ho sillabato: " Con scappellamento a sinistra". Il robot è rimasto interdetto, poi si è arreso, dicendo quasi a malincuore: "Le passo un operatore del centralino". Sono così entrato in contatto con una telefonista che probabilmente stava facendosi le unghie in attesa che il robot s'impappinasse. Parlando tra umani, ho potuto spiegare alla signorina il mio problema e in un attimo ho ottenuto l'agognato collegamento. Sono esperienze tipiche di una città come Genova, ricca di circa diecimila dipendenti comunali più un robot che non ha mai visto "Amici miei".

lunedì 4 maggio 2009

Tappi granata

Il 4 maggio di sessant'anni fa, alle 17,03, cadde a Superga l'aereo del grande Torino. Era la "mia" squadra, l'unica per la quale abbia tifato in vita mia. Avevo quasi sedici anni, mi ritrovai immerso nello stesso dolore che avevo provato al tempo dei lutti per la guerra. E tra quei lutti c'era la morte di mio padre. Cercai di condividere con altri tifosi granata il senso di vuoto che mi sconvolgeva, andai in pellegrinaggio sul luogo della sciagura e sottoscrissi mille lire per la ricostruzione della squadra, anche se intuivo che il nuovo Toro mi sarebbe stato estraneo. Non mi sentii di portare il distintivo del "Torino simbolo" che la società mi aveva inviato in ringraziamento: per me era veramente tutto finito. Ancor oggi ripenso spesso a quella tragedia e mi torna subito in mente, nitidissimo, un particolare, minimo ma solamente mio. Con i miei amici partecipavo a un campionato di calcio da tavolo, usando tappi da birra riempiti di stucco e decorati con cerchietti di cartone che portavano i colori delle maglie, i numeri e i nomi dei giocatori (era un po' l'antenato del Subbuteo). Io giocavo, naturalmente, con la squadra del Torino. La mattina dopo il disastro aprii la scatola di latta, da sigarette, dove conservavo i miei tappi e staccai a una a una le "maglie" dei calciatori morti. Quello fu il mio funerale del grande Torino, con le lacrime di un sedicenne.

sabato 2 maggio 2009

Ciao, René

Sono stato a Palazzo Ducale a visitare la mostra sulle vittime degli anni di piombo (è aperta fino al 10 maggio). Ho ritrovato volti amici: il magistrato Coco e il commissario Esposito, uccisi, il p.m. Sossi, rapito, il giornalista Vittorio Bruno, gambizzato. Mi sono profondamente emozionato di fronte a una foto di Renato Briano, mio compagno al liceo Colombo, mio collega nell'associazione arbitri di calcio, mio instancabile partner negli allenamenti di atletica in corso Monte Grappa. Dopo il liceo facemmo insieme anche una grande mostra di trenini elettrici, proprio al Ducale: io alla cassa, lui alle manovre su un immenso plastico. René (lo chiamavamo così) era un ragazzo serissimo, metodico, nello studio e nella vita. Si laureò in legge, a Balbi. Lo incontrai l'ultima volta in Galleria Mazzini, mi disse "Vengo da un impiego in Sicilia, ora vado a Milano, sarò capo del personale in una grande azienda. E' l'occasione della vita, non la sbaglierò". I brigatisti lo uccisero il 12 novembre 1980, mentre leggeva il giornale sul metrò milanese, andando al lavoro. Non vide neppure i sicari. Stamani la mostra del Ducale sugli anni di piombo era deserta, anche se a ingresso libero. Nella porta accanto la gente faceva a gomitate per entrare al "memorial" di De André, dopo aver sopportato un'altra lunghissima coda alla biglietteria. Ognuno ha diritto di scegliersi i propri eroi e i propri simboli. Ciao, René.

giovedì 30 aprile 2009

Il vicesindaco

In occasione del 25 aprile è stato riedito il volume "Una repubblica a Torriglia" di G. B. Canepa, "Marzo" nella guerra partigiana. E' un'opera ricca di risvolti umani, ne possiedo la prima edizione del '67. Su Marzo, che fu vicesindaco di Genova nel 1945, mi raccontò un aneddoto il collega in giornalismo Giuliano Crisalli, figlio di un notissimo leader antifascista genovese, uno di quei "sovversivi" che venivano messi in cella preventivamente quando il Duce arrivava in città. Secondo il racconto, proveniente da una fonte non sospettabile di "nostalgie", Canepa entrò da vicesindaco a Palazzo Tursi con fieri propositi: voleva introdurre la semplicità e la purezza partigiana nelle incrostate schiere della burocrazia comunale. Seduto alla scrivania, decise di rivoluzionare subito una dei punti nevralgici del momento, l'ufficio alloggi: tirò su la cornetta del telefono, fece il numero e, proprio per non darsi delle arie, disse semplicemente, in genovese: "Sun Marsu", cioè "Sono Marzo". Dall'altra parte giunse una fulminante risposta: "E cùrite!" ("E cùrati!"). La battuta era buona, perché "Sun Marsu" in genovese significa anche "Sono marcio", ma la reazione dell'interlocutore non poteva non avere significati reconditi. Chissà, forse ancora oggi qualche burocrate telefona "Cùrati!" al ministro Brunetta, anche se il suo nome non si presta a finti equivoci.

sabato 25 aprile 2009

Il console

La morte di Paride Batini, console della compagnia del portuali genovesi, ha colpito profondamente la città. Batini aveva portato una sua apparente, eterna giovinezza fino al traguardo dei 74 anni; era il solo capace d'indossare il "chiodo" senza far pensare a Fonzie, era anche il solo ad autotradursi: quando parlava in fluente italiano alla Tv si capiva benissimo che quello che diceva l'aveva pensato in genovese. Si chiamava Paride ma era l'Ettore del fronte del porto, una Troia assediata. Con il pretesto dell'ammodernamento armatori e spedizionieri conducevano una perenne guerra alle posizioni di forza della corporazione dei portuali, cercando di abbattere i salari e, soprattutto, di eliminare l'esclusiva del lavoro sulle banchine. Quella gente già ricca faceva mille discorsi e ragionamenti sullo "shipping", ma finiva irrimediabilmente al tappeto quando Batini impugnava il microfono e diceva poche, chiare e semplici cose in difesa della classe operaia. Al funerale, la vedova del console ha seguito il feretro tendendo in avanti un braccio con il pugno chiuso: anche chi non è della stessa parte politica ha capito che quella era l'ultima testimonianza di una ferrea unione coniugale, fatta di amore e di condivisione totale d'idee e di esperienze. Così abbiamo scoperto che Batini non aveva solamente indovinato tutte le sue tattiche sindacali, aveva indovinato anche la moglie.

domenica 19 aprile 2009

L'intendente

Moltissimi macellai genovesi sono in ansia per le tasse arretrate: pare infatti che il fisco intenda chiedere integrazioni di decine di migliaia di euro. Tutto ciò non sarebbe successo negli anni Sessanta, quando nel palazzo di via Fiume regnava l'intendente di finanza Crescenzo Crispo. Ho scritto "regnava" non a caso, perché Crispo, personaggio quanto mai accattivante, godeva a Genova di una popolarità superiore a quella del sindaco. Lo si vedeva alla domenica, quando l'alto funzionario era il polo d'attrazione della tribuna d'onore dello stadio, non tanto per il suo temibile ruolo, quanto per le sue battute e per la sua competenza calcistica. Una volta all'anno l'intendente convocava i rappresentanti dei macellai genovesi e comunicava il totale delle tasse che lo Stato pensava di ricavare dalla categoria: "Provvedete voi - aggiungeva - a dividervi l'onere": La spartizione era praticamente già fatta, con un sistema semplicissimo: chi andava a Ca' de' Pitta a macellare un animale versava una sommetta in conto tasse: più erano gli animali che utilizzava, più erano i pagamenti che doveva fare. Una giustizia tributaria elementare ed efficace. Oggi non sarebbe più possibile, sia perché domina la progressività fiscale, sia perché a Ca' de' Pitta non macella più nessuno: le "mezzene" arrivano già pronte dall'Olanda.

lunedì 13 aprile 2009

Mezzanotte

Nessun dizionario biografico si occuperà mai di Isacco Pasini, detto Mezzanotte, rigattiere di piazza Veneroso a Genova. Non ce ne sarebbe motivo, trattandosi di un'esistenza trascorsa nella normalità e conclusa in modo naturale. Il personaggio merita tuttavia un ricordo mio personale a causa dei memorabili duelli verbali che Mezzanotte ingaggiava con tale signor Pavese, detto Spendibene per la sua estrema riluttanza a pagare il prezzo richiesto. Quando Spendibene adocchiava un mobile pregevole nel magazzino del rigattiere c'era da mettersi seduti come a teatro, per assistere alla contrattazione a base di urli, sdegni, finti abbandoni di campo e pesanti allusioni al passato di Pasini, che pare portasse il suo soprannome in ricordo di giovanili incursioni notturne nei beni altrui. Tutto durò finché Mezzanotte decise di farla finita con le contrattazioni. Alla prima occasione prese una scure a disse a Spendibene: "O mi dai quello che voglio o sfascio il mobile". Pavese credeva che scherzasse e s'azzardò ad offrire cinquecento lire in meno. Immediatamente partì una serie di colpi di scure che distrusse il reperto (per la storia, un inginocchiatoio del Seicento). Spendibene fuggì inorridito e, da allora in poi, pagò senza fiatare. Il nuovo corso però durò poco, perché il parsimonioso acquirente, piuttosto che rinunciare a tirare sul prezzo, preferì non farsi più vedere.

lunedì 6 aprile 2009

Call Center

Scoprii l'esistenza del Call Center una volta che si guastò l'ascensore: feci la solita telefonata alla ditta e mi accingevo a descrivere il guasto quando l'interlocutore m'interruppe: "Guardi che io non me ne intendo. E poi, le sto rispondendo da Verona...". Mi feci spiegare l'arcano, mi sembrò una cosa da pazzi che una richiesta d'intervento a Genova dovesse passare dal Veneto. Comunque la squadra arrivò e l'ascensore fu riparato. Da allora sono diventato un patito della formula "Se vuole parlare con un operatore prema quattro": in quella giungla cibernetica una voce umana è sempre un'ancora di salvezza. Chiamata dopo chiamata sono divenuto anche un simpatizzante dei lavoratori del Call Center, gente giovane, mal pagata, precaria e apparentemente senza futuro. Ho anche scritto una poesiola per loro, s'intitola appunto "Call Center": "Al telefono offriamo consulenza/ senza una pausa, senza un'impazienza./ Passiamo le giornate di rimpetto,/ tu hai slacciato un bottone sopra il petto./ Sto promettendo al solito signore/ di fargli riparare l'ascensore;/ mi sorridi, chiedendo a un altro tale/ l'indirizzo ed il codice fiscale./ Vorrei che ci mettessimo un po' insieme,/ ma poi faremmo solo la Bohème./ Hai sentito che ha detto Berlusconi? / E' meglio che tu cerchi tra i ricconi!/ Io resterò davanti alla Tv / con la Bohème ma senza rendez-vous".

domenica 29 marzo 2009

Il grande Indro

Il Corriere della Sera ha fatto pace con Indro Montanelli dedicando due pagine ai diari privati del grande giornalista. Sono note piacevolissime, così come lo era lui. Lo conobbi all'inizio del 1972, quando andai a Milano ad assistere al processo per diffamazione intentato dal sindaco di Venezia a causa di una tipica strigliata montanelliana apparsa sul "Corriere", allora diretto da Spadolini. Con l'aula piena zeppa, riuscii a trovare un sedile e un punto d'appoggio per il taccuino a un'estremità del bancone dei giudici. Iniziato l'interrogatorio, mi accorsi che Montanelli, nella sua perorazione difensiva, si rivolgeva anche a me: mi credeva, evidentemente, un magistrato della Corte. Sospesa per un po' l'udienza andai da lui e gli dissi: "Guardi che non sono un giudice, sono un giornalista". Rimase sorpreso, poi ribatté: "E allora, perché mi dai del lei?". C'era da aspettare un'oretta e lui propose: "Passeggiamo un po". Con le sue lunghe gambe mi portò a fare il giro di parecchi degli enormi corridoi del palazzo novecentista. Era curiosissimo di cose genovesi, sapeva quasi tutto sul caso di Milena Sutter ma non si stancava di chiedere nuovi particolari. Ritornato in aula, proclamò con enfasi davanti ai giudici: "Dedicherò il resto della mia vita alla difesa di Venezia!". Poi mi diede un'occhiata di sbieco: forse voleva che lo scrivessi o forse voleva dirmi di non prenderlo troppo sul serio.

Anche tu, Hugo?

E così Hugo Chavez ha fatto rimuovere la statua di Colombo, definendolo invasore e massacratore d'indigeni. Ma è sicuro il presidente venezuelano di non discendere a sua volta da una stirpe di tagliagole? Dall'epoca di Cro Magnon la storia del mondo è stata scritta da popoli che si sono sovrapposti l'uno all'altro, per lo più cruentemente. Ne sappiamo qualcosa noi in Italia, dove gli arrivi senza invito dalle Alpi o dal mare sono stati talmente numerosi da non poter essere elencati con precisione. Nella situazione d'oggi, tra approdi disarmati e accoglienze "buoniste", ci gratifichiamo con il melenso slogan "Anche noi siamo stati emigranti"; dovremmo dire invece, più sinceramente, "Siamo tutti invasori". Il passato testimonia infatti che - data la costante abitudine degli ultimi arrivati di eliminare a fil di spada i precedenti occupanti - ognuno di noi ha una sola probabilità su un milione di derivare da una popolazione autoctona italiana, se mai ce n'è stata una. Chissà con quale piroga o con quale slitta è arrivato, un'arma in pugno, l'uomo dai cui poco magnanimi lombi discendiamo. Così dev'essere stato anche nel continente americano, dove le guerre tra tribù hanno talvolta cancellato civiltà capaci di creare opere d'arte meravigliose. Ma è chiaro che la parola spetta sempre agli ultimi vincitori: così Chavez ha potuto dire quello che ha detto. Peccato che l'abbia detto in spagnolo.

martedì 24 marzo 2009

Amaro ritratto

Centoquaranta dei mille ritratti eseguiti da Andy Warhol nella sua istrionica carriera sono esposti a Parigi in una grande mostra. Forse c'è anche quello di Luigino Accame, che fu presidente del Teatro stabile e della Camera di commercio di Genova. Originario di Pietra Ligure, Accame fu invitato a una festa in onore di Warhol e della sua corte dei miracoli a Boissano, dove la signora Jeanneret (nipote del grande architetto Le Corbusier) aveva restaurato un borgo medioevale, ponendolo a disposizione degli artisti. Warhol si disse colpito dalla fisionomia di Luigino e lo indusse a ordinare un ritratto che costò (amara sorpresa) quaranta milioni dell'epoca, quasi un appartamento. Accame non era fortunato con le arti: dopo essersi svenato per fare il mecenate di una galleria a Genova, aveva deciso di esporre permanentemente a Pietra Ligure , in un alloggio preso in affitto, la sua notevole raccolta di quadri. All'inaugurazione si presentò solamente il cameriere del ristorante frequentato da Luigino. "Forse non ho passato bene la voce" pensò lo sconcertato ospite. Una settimana dopo squillò di nuovo il campanello: era il solito cameriere che chiedeva di poter ripetere la visita. A quel punto Luigino smontò la pinacoteca e, non molto tempo dopo, disperse la raccolta, vendendola con l'aiuto di un corniciaio di Finale. Naturalmente fu criticatissimo dall'apparato artistico che l'aveva munto per decenni.

mercoledì 18 marzo 2009

Alfabeto muto

Volevo insegnare l'alfabeto muto a mio nipote Leo, ma ho scoperto che lo conosce meglio di me. O mi hanno preceduto gli altri nonni o il linguaggio dei segni ha ancora una sua cittadinanza nel mondo infantile, come ai miei lontanissimi tempi. A proposito di segni, seguo spesso il telegiornale del tardo pomeriggio con l'annunciatore affiancato da una signora che traduce le notizie per i sordomuti. Lo faccio anche perché ho un simpatico ricordo dei capannelli gesticolanti che sostavano accanto all'istituto di via Santi Giacomo e Filippo e sembravano comunicarsi sempre cose divertentissime, che rimpiangevo di non poter apprendere. Dunque, ascolto lo speaker Tv e guardo i gesti dell'interprete, per scoprire le possibili corrispondenze tra voce e mani. L'altro giorno l'annunciatore parlava di una persona "portatrice di un lieve handicap psichico"; incuriosito, ho scrutato l'interprete e ho visto che traduceva la complicata definizione appoggiandosi semplicemente l'indice sulla tempia; proprio come facevamo noi da bambini, nella nostra crudele innocenza, per far notare che a qualcuno "girava la pallina". Evidentemente il linguaggio "politicamente corretto" non è ancora riuscito a fare proseliti tra i sordomuti. Non so perché, ma proprio non riesco a rammaricarmene.

venerdì 13 marzo 2009

Mille giorni

L'altro giorno è morto in avanzata età l'impresario edile Mario Valle, che per molti anni, nel bene e nel male, dominò la politica e l'economia tra Arenzano e Cogoleto. E' stato commemorato con il giusto rilievo, ma non è stata sottolineata abbastanza una pagina importante della sua vita, la ricostruzione del teatro Carlo Felice di Genova. Quando Valle vinse l'appalto nessuno si stupì, aveva la giusta potenzialità economica e non incontrava ostacoli politici, neppure a sinistra. Quando garantì che in mille giorni avrebbe rifatto il teatro, chiavi in mano, tutta Genova disse "Campa cavallo!". Quando, al millesimo giorno, Valle consegnò davvero al sindaco l'edificio completo di tutto, gli scettici, invece di applaudire sportivamente, si limitarono a tacere. Si decise l'inaugurazione, contando sulla presenza del Presidente della Repubblica: dopotutto il teatro era rimasto per cinquant'anni allo stato di rudere bellico. All'ultimo momento, però, il Presidente non venne "per precedenti impegni". Che cosa era successo? Si seppe, in via riservata, che erano emersi problemi di protocollo: non sarebbe stato possibile presentare a Cossiga il benemerito "uomo dei mille giorni" in quanto Valle, nel corso della sua attività imprenditoriale, era incappato in un arresto. Così l'unico impresario puntuale in un appalto pubblico dovette rimanere in un'ombra, tutto sommato, immeritata.

lunedì 9 marzo 2009

La mano misteriosa

La pranoterapia è un argomento di conversazione suscettibile di far terminare in rissa una tranquilla serata tra amici. Mia cognata Luisa giura che è un cosa vera come la luce del sole, Cecchi Paone (l'altro giorno in Tv) garantisce che è solo un'illusione. Io non l'ho mai provata e quindi non ho opinioni in proposito, ricordo però un caso di tanti anni fa, quello del signor De Bernardi, proprietario di un grande negozio di strumenti musicali e dischi in via San Luca, dove ora c'è Assolibri. A quei tempi (anni Cinquanta) si andava da De Bernardi così come oggi si fa un giro da Ricordi: nel negozio troneggiavano, richiestissimi, i radiogrammofoni Grundig, Telefunken, Marelli, ognuno con il suo stile; si vendevano migliaia di dischi a 78 e 45 giri e si assisteva a un vero via vai di pianoforti. Insomma, una miniera d'oro. Un giorno il titolare del negozio, cercando di consolare un suo dipendente acciaccato, gli mise affettuosamente una mano su una spalla: il dolore passò immediatamente. Fatte più riprove, De Bernardi si convinse di avere il "fluido", lo prese come un dono soprannaturale e immaginò di essere stato chiamato da Dio a compiere una missione. Chiuse il negozio d'oro e si ritirò a Ruta, dove per molti anni si trovò davanti a casa una fila di ammalati. A tutti impose le mani, a nessuno chiese mai una lira. Spese bene il resto della sua vita regalando speranza. Regalò anche vera terapia?

mercoledì 4 marzo 2009

Ciao Grissom

Il "Corriere" di oggi annuncia che il poliziotto scienziato Gil Grissom, della serie tv CSI, sarà sostituito da un altro detective, più propenso alle indagini vecchio stile. Peccato, gli esperimenti di Grissom e dei suoi collaboratori suscitavano interesse e ispiravano parecchia fiducia nei telespettatori. Si vede che sono tempi così. A Genova si grida allo scandalo perché nel laboratorio di Luciano Cavenago (il Grissom di casa nostra, recentemente scomparso) sono state trovate molte armi e munizioni: evidentemente si ignora che un perito balistico forense ha bisogno di fucili e pistole da comparazione. Conobbi Cavenago tanti anni fa, quando era un giovane pioniere della sua scienza: un personaggio brillante, avrebbe potuto fare l'attore. Mi parlò della non facile vita dei periti giudiziari, legati a incarichi sporadici e mal pagati. Il compenso era una miseria giornaliera, per un massimo di sessanta giorni: "E' per questo - disse - che molte perizie sfruttano tutto il tempo disponibile. Io, in realtà, per confrontare due bossoli impiego un'ora al massimo. Do subito un referto ufficioso, poi per consegnare quello ufficiale aspetto due mesi". Può darsi che da allora le cose siano cambiate, però quotidiamente, per quasi ogni delitto, sento dire o leggo che "il perito ha chiesto sessanta giorni di tempo". Allora penso a Cavenago e alla sua sincerità.

venerdì 27 febbraio 2009

La cassaforte

Avevo un amico, si chiamava Carlo Piccaluga ed era un ex mediatore di carboni. M'invitava a casa sua per mostrarmi i suoi acquisti d'arte: comprava piccoli blocchi di quadri e mi chiedeva d'indicargli i pezzi più meritevoli. Fatica inutile, perché, di fatto, teneva tutto. Con un becco a gas e un crogiolo di porcellana creava sul tavolo di cucina piccoli gioielli d'argento che poi regalava. La moglie, la signora Tita, lo adorava. Poi Piccaluga rimase vedovo e, poco dopo, morì. Mi convocò un notaio, perché ero stato nominato esecutore testamentario. Nulla di complicato, i quadri andavano alla Cassa di Risparmio in cambio dell'istituzione di borse di studio, la casa toccava a un ente religioso, il resto a lontani parenti. C'era però un'incognita che angustiava il notaio: si era inventariata una chiave da cassaforte, ma il forziere, in casa, non c'era. Senza la "comare" (come avrebbe detto Capannelle) non si poteva chiudere il verbale. Per fortuna Piccaluga mi aveva confidato il segreto, che comunicai subito al notaio: la cassaforte era stata murata sulla parete esterna dell'edificio, in corrispondenza del balcone: "Voglio vedere - aveva detto il mio amico - chi sarà quel ladro che si metterà a scassinare lo sportello al cospetto dei palazzi circostanti". Andammo ad aprire il forziere: era assolutamente vuoto. Io me l'aspettavo, perché Piccaluga, in realtà, teneva i valori nel ripostiglio, in una scatola da scarpe. Anche lui era seguace del "maniman" caro ai genovesi.

sabato 21 febbraio 2009

Le ombre del Lagaccio

Il litigio del giorno, a Genova, riguarda la costruzione della moschea alle spalle del Lagaccio, il quartiere che ha dato il nome a un notissimo tipo di biscotto, nato da un impasto dolce tagliato a fette spesse, poi passate in forno. Prima di entrare anche nella storia della gastronomia, il nome Lagaccio si riferiva a un vero lago, un invaso per nulla attraente creato al servizio di un proiettificio. Chiuso lo stabilimento, lo specchio d'acqua gli sopravvisse a lungo, poi fu interrato, con grande sollievo degli abitanti della zona che lo consideravano un pericolo per i ragazzi abituati a giocare sulle sue sponde. Purtroppo, in un paio di casi, i timori si erano tragicamente avverati. Ancor prima, nell'aprile-maggio 1945, il lago aveva inghiottito altri corpi, quelli delle vittime di esecuzioni sommarie: la cronaca di quei giorni ne ricorda quattro, una professoressa di matematica con i suoi genitori e un altro docente della stessa materia. Oggi il sito del Lagaccio ospita un impianto sportivo, ma si porta dietro, con il nome, le ombre del suo passato. Che diventi anche un luogo di raccoglimento e preghiera è, tutto sommato, una buona notizia.

lunedì 16 febbraio 2009

Etaoin etaoin

Non possiedo un telefonino, non lo desidero e non amo chi strilla gli affari suoi in quell'aggeggio per strada o sul bus. Mi piace invece il popolo dei messaggini, che non dà fastidio a nessuno. Alla taciturna comunità del Xchè offro in omaggio una nuova sigla: etaoin. Significa "scusa, ho sbagliato, cancella tutto". Non l'ho inventata io, esiste da quando entrò in uso un'altra tastiera per scrivere, quella della linotype. Nelle tipografie dei giornali il linotipista, battendo velocemente sui tasti, componeva con le matrici metalliche e il piombo fuso le righe che formavano un articolo; quando si accorgeva di aver iniziato una riga sbagliando un paio di lettere, preferiva completare a casaccio la riga errata e riprendere il testo giusto dalla riga successiva. Come faceva? Dava due colpi secchi con il taglio della mano in una zona della tastiera e in tal modo finiva la riga con "...etaoin etaoin". Il correttore l'adocchiava al volo sulle bozze e la segnalava all'impaginatore, che la toglieva, sempre che non fosse impegnato in una discussione sulla partita domenicale. Non è una calunnia: se andate in biblioteca a leggere qualche vecchio articolo, vi capiterà d'incontrare, nel bel mezzo del testo, l' etaoin etaoin finito trionfalmente sul giornale.

giovedì 12 febbraio 2009

Dal profondo

Mentre si celebrano le esequie di Eluana Englaro mi chiedo quali preghiere siano state scelte per il doloroso rito. Spero che il sacerdote abbia rinunciato al terribile Dies Irae, allo sconfortante Miserere, al semplice ma forse troppo sbrigativo Requiem e si sia soffermato invece sul De Profundis. Anche questo antichissimo salmo ha un contenuto poco consolatorio, ma le accorate parole iniziali ("Dal profondo ho gridato a Te, o Signore") hanno il potere di evocare l'abisso in cui Eluana è rimasta per diciassette anni. Se da quel baratro sia veramente uscita un'anima è materia di fede. Fermiamoci alla realtà, alla consolazione delle suorine che hanno così a lungo curato la giovane inferma e hanno ricevuto da quel ruvido mangiapreti di Beppino Englaro un ultimo, silenzioso grazie: quello del funerale religioso.

sabato 7 febbraio 2009

Colei che si trascina

E' una triste giornata, con un occhio alla Tv in attesa di notizie dalla clinica La Quiete. Si cerca un perché alla vicenda anche nel vocabolario di greco: forse l'insolito nome della povera protagonista ha un significato nascosto, profetico. Ecco il responso, Eluana significa "colei che si trascina", Englaro vuol dire "nella sorte". La lingua è quella dei cori nelle tragedie greche, il dorico. Forse varrebbe la pena di riaprire le dispense del professor Untersteiner, che ci spiegava come i personaggi di Eschilo si dibattessero in un dilemma senza uscita perché si straziavano a vicenda avendo ragione entrambi: dike contro dike, diceva il professore, giustizia contro giustizia, diritto contro diritto. Sì, Beppino Englaro potrebbe essere un personaggio eschileo, per la sua determinazione, per il suo dolore, per la sua ostinata ricerca di un'ultima pagina della storia. Si contrappone a lui non un antagonista altrettanto tragico, ma un coro di religiosi, di politici, anche di gente qualsiasi: tutti con una loro giustizia da gridare, da sostenere, da imporre. E' davvero dike contro dike. Se ne discuterà per anni, senza risultati.

venerdì 30 gennaio 2009

Sedere e stivali

Ci fu un tempo in cui il bello e il buono erano strettamente legati fra loro. Poi Lucifero, l'angelo più bello del Paradiso, si ribellò e fu buttato fuori da ciò che era buono, come uno Zidane qualsiasi. Da quel momento non ci sono più state certezze; in compenso l'uomo ha acquisito il diritto di giudicare bella anche una cosa che fa a pugni con i principi morali. Meditavo su questa contraddizione osservando una fotografia di Tom Cruise in divisa nazista: lui è un bell'uomo, ma bisogna ammettere che la giubba di Von Stauffenberg aumenta di molto la sua venustà. Quella tenuta così calzante è stata una calamita irresistibile anche per molti altri attori di sicura fede democratica: cito al volo Richard Burton e Clint Eastwood. Persino Curd Jurgens, superstite dei campi di concentramento nazisti, nei suoi ruoli cinematografici sembrava nato con l'odiata divisa indosso, era un vero commilitone di quell'ufficiale hitleriano che Sven Hassel definiva beffardamente "sedere e stivali". Per fortuna, a dispetto di Lucifero, il fastidioso dissidio tra morale ed estetica non è perenne: a rimettere i valori a posto può provvedere un'uniforme ancora più bella, quella tutta bianca della marina Usa, magari indossata da Steven Seagall.

sabato 24 gennaio 2009

Lupara accademica

E' scomparso recentemente, novantunenne, il professor Vincenzo Longo, per molti lustri amatissimo docente di latino e greco al liceo classico "Colombo" di Genova. Fino all'ultimo aveva dedicato le sue giornate allo studio degli autori classici, cercando di far nuova luce sul mondo antico. Persona dal tratto signorile, ottimo e fluente oratore, il professor Longo aveva tutte le qualità per farsi largo nel mondo della cultura; eppure, circa quarant'anni fa, toccò proprio a lui subire le ferite di un'incredibile "lupara accademica". Si era liberato un incarico universitario per l'insegnamento di una delle discipline in cui si articola lo studio del latino. Forte del suo curriculum, il professor Longo presentò domanda per ricoprire quel ruolo . L'incarico (con il relativo raddoppio di stipendio) era però appetito da un cattedratico, che avrebbe potuto ottenerlo solamente se il bando per un docente esterno all'università fosse andato deserto o avesse registrato concorrenti non idonei. Questa seconda ipotesi era abbastanza improbabile: venivano infatti ammessi a concorsi di quel tipo anche i semplici "cultori della materia". Ebbene, la commissione accademica si riunì e dichiarò ufficialmente che il professor Longo, unico concorrente, non risultava essere almeno un "cultore della materia"; pertanto l'incarico spettava al cattedratico. Longo ci rise sopra, amaramente, e andò a insegnare, per molti anni, in altre università che lo avevano chiamato. Ora è in cattedra nell'aldilà degli Antichi.

lunedì 19 gennaio 2009

Didascalie in agguato

Sul "Corriere della Sera" di oggi 19 gennaio è comparsa, a pagina 17, questa imbarazzante didascalia di un foto: "Il ministro dell'Economia Giulio Tremonti ieri sera a "Che tempo che fa" su Raitre con Fabio Fazio (a sinistra) e Luciana Littizzetto (a destra)". Immagino che giornata avrà passato oggi al giornale l'autore (o l'autrice?) di un simile capolavoro; una soave collega avrà chiesto ad alta voce, alla mensa aziendale: "Preferisci questa arancia, a sinistra, o questa mela, a destra?". Anche nei giornali dei miei tempi le didascalie delle foto erano spesso motivo di guai: di solito si facevano all'ultimo momento, quando l'articolo era già in tipografia e il nome della persona raffigurata non era più controllabile. Così i Giovanni diventavano Giuseppe e viceversa. Adesso, con le nuove tecnologie, non si corrono più questi rischi, basta premere un tasto sul computer e il nome si recupera. Rimane il problema dei corto circuiti mentali di chi lavora sempre con un occhio alla lancetta dei minuti. Mi capitò una volta di scrivere al volo una didascalia in cui facevo un dotto riferimento alla lotta "tra Golia e il gigante". Mi salvò un impaginatore, Ercole Bazzurro, ex terzino sinistro del Genoa: mi telefonò dalla tipografia dicendo "Scià me scuse, ma scià l'ha scritu unn-a belinata". Ogni volta che l'incontro, l'abbraccio.

martedì 13 gennaio 2009

L'alpino Will Smith

Da ragazzo mi arrampicavo con gli amici verso la Madonna della Guardia scandendo il passo sulle note del "testamento del capitano", una canzone alpina della prima guerra mondiale. Aveva il ritmo giusto e raccontava la storia di un capitano morente che chiedeva di dividere il suo corpo in cinque pezzi, da inviare alla patria, al battaglione, alla madre, alla fidanzata e anche alle montagne "che lo fioriscano di rose e fior". La canzone mi è ritornata in mente quando ho letto la trama del nuovo film di Muccino "Sette anime": una vicenda drammatica che vede il protagonista, Will Smith, destinare sette parti del suo corpo ad altrettante persone bisognose di un trapianto. Incuriosito dalla parziale coincidenza del tema ho fatto un po' di ricerche e ho scoperto che l'idea del dono del proprio cadavere fatto a pezzi risale addirittura al 1528, quando fu composta la ballata "Il testamento del marchese di Saluzzo". In questo antico canto, raccolto da Costantino Nigra, il moribondo destinava la sua testa alla madre, il cuore alla fidanzata e il resto del corpo, diviso in due parti, al Saluzzese e al Monferrato. A quei tempi era un'idea preromantica con risvolti macabri, ai nostri giorni è divenuta una scelta razionale e soprattutto utile.

mercoledì 7 gennaio 2009

Questione d'incomincio

Nessun vocabolario degno di tal nome registra il sostantivo "incomincio". I cronisti d'antan sanno tuttavia che cosa significhi: era usato nelle redazioni per indicare l'inizio di un articolo, la frasetta introduttiva che doveva indurre il lettore a non abbandonare il colonnino capitato sott'occhio. Certe volte l'incomincio era più attraente del titolo, altre cedeva invece alla frase fatta, all'ovvietà: ad esempio, per una nevicata come quella di oggi, si scriveva, per commuovere le vecchie signore: "E' arrivata la bianca visitatrice". Chi inventò la parola "incomincio"? Pare che sia stato un cronista del Decimonono degli anni Quaranta, afflitto dal complesso della pagina bianca: quando doveva scrivere un articolo passava di collega in collega implorando: "Mi fai l'incomincio?". Ottenuta la frasetta iniziale andava avanti come un treno, perché era un giornalista diligente e bene informato. Una volta si fece coraggio e decise che l'incomincio l'avrebbe scritto lui: la redazione, attonita, seguiva le sue mosse. Infilò un foglio nel rullo della Remington, batté brevemente sui tasti e subito appallottolò la pagina. La scena si ripeté per una decina di volte, poi il cronista si arrese e ritornò all'antica implorazione: "Mi fai l'incomincio?". Qualcuno raccolse le pagine spiegazzate per scoprire cosa mai avesse scritto il collega: per dieci volte aveva ripetuto "Che non mi venga l'uzzolo di...". Provate voi ad andare avanti, se ci riuscite.