venerdì 28 agosto 2009

La terza

Dagnino, anziano usciere del Decimonono, aveva una mano di legno. Con l'altra cercava la sua rivincita di disabile intagliando noci per ricavare graziosi cestini completi di manico, che poi regalava ai giornalisti. Era attento a quanto si diceva nella stanze redazionali e dall'ascolto aveva tratto la convizione che tutte le più importanti notizie facessero capo alla terza pagina, quella letteraria. Non mancava di buoni motivi poiché spesso le polemiche tra colleghi riguardavano "quelli della terza" accusati di fare la bella vita e di guardare dall'alto in basso i cronisti e gli sportivi. Effettivamente, arrivare a scrivere in terza pagina era un traguardo, lo tagliava chi aveva una scrivania nella "stanza del pensiero" e, magari come assegnatario di una rubrica, godeva di una specie di usucapione. Se qualche estraneo giungeva alla meta, era solamente per un ordine perentorio del direttore. Dagnino, ignaro di corsivi e di elzeviri, aveva dunque concluso che la terza pagina era il "non plus ultra" del giornalismo. Così, quando i corridoi si animavano di colpo perché qualcuno annunciava, gridando, l'assassinio di uno statista o l'affondamento di una nave, tra i concitati scambi di idee dei redattori si levava il vocione di Dagnino che esclamava in dialetto: "Questa scì che a l'è bella, a mettemmu in tersa!". Dagnino è passato, ma, nel giornale, la sua frase "storica" è rimasta viva per anni e anni.

venerdì 21 agosto 2009

Il caffè

Il rito del caffè offerto o preso in compagnia è sempre stato diffusissimo anche a Genova. Oltre quarant'anni fa si accettava l'invito con una clausola fissa: "Grazie, però andiamo da Tubino". Effettivamente in quel bar di via Venti Settembre (che ancora esiste) si beveva il miglior caffè della città, magari disputando se il merito fosse della macchina espresso o di una segreta miscela. Il signor Tubino, proprietario del bar, era un grande importatore di caffè, con un vasto magazzino nel porto franco, cioè in una zona dove si poteva lavorare il prodotto prima di rispedirlo all'estero, oppure farlo entrare in Italia pagando i tributi. In quest'ultimo caso i sacchi di caffè superavano un varco tra due grandi battenti di ferro che scorrevano su rotaie. Alla sera i portelloni venivano chiusi e sulla linea di contatto si ponevano i sigilli doganali, da rompere il mattino seguente. Il sistema sembrava inattaccabile; invece si scoprì che il signor Tubino e i suoi complici, grazie alle rotaie troppo lunghe, nella notte facevano scorrere i due portelloni uniti nelle stessa direzione, senza rompere i sigilli: si apriva così, dalla parte opposta, un passaggio attraverso il quale tonnellate di caffè entravano in Italia senza pagare una lira di tassa. Insomma, il caffè Tubino era buono anche perché aveva il malizioso retrogusto del contrabbando.

lunedì 17 agosto 2009

Cannonate

Il porto di Genova, anche ora che hanno tolto le cancellate, rimane estraneo alla città: è un corpo a sé stante, con i suoi riti e i suoi segreti. Un tempo era governato da un Consorzio autonomo, che legiferava per conto proprio: ora è sparita l'autonomia e il presidente deve tener conto sia delle leggi dello Stato, sia delle istituzioni che lo rappresentano. E' un obbligo assai sofferto da un settore in cui, da sempre, dominano le corporazioni. Per dare un'idea dell'ambiente, una sola volta ho sentito un compagno di scuola o di giochi dire "Voglio andare a lavorare in porto". In quell'unica occasione chi parlava era figlio di un portuale. Ho rischiato anch'io di entrare nel giro, mio zio Albino Gordesco era infatti commesso di bordo e, non avendo discendenti diretti, aveva la possibilità di farmi assumere al suo posto, al momento della pensione. Girai alla larga e feci bene, tutto sommato; conservo però con orgoglio il "lattone" dello zio, la sua tessera di lavoratore portuale chiusa dentro a una custodia di metallo, antipioggia (una protezione teorica, perché da sempre alle prime gocce il lavoro sulle banchine portuali si ferma). Il presidente del Consorzio dei nostri tempi è dunque un cireneo condannato a sgobbare duramente. Forse non sa neppure che ai suoi predecessori "autonomi" spettavano gli onori di un Capo di Stato, comprese le cannonate a salve delle navi da guerra.

venerdì 7 agosto 2009

Pietanzina

Con un gruppo di carissimi ex compagni di lavoro ho raggiunto una trattoria dell'entroterra genovese, divenuta famosa per i suoi sontuosi primi e secondi. Dopo una lunga attesa, ognuno di noi si è trovato davanti un piatto di enormi dimensioni, al centro del quale stava una pietanzina simile ai lumini che si mettono al camposanto. Messo in allarme da una serie di colorite esclamazioni, il titolare del locale è accorso e, con accento trionfante, ci ha rivelato di aver assunto un cuoco della "Nouvelle Cuisine", destinato a dare impulso agli affari: "Vi abituerete subito al cambiamento - ha concluso - e ritornerete presto". "Certamente" gli abbiamo risposto, facendo il gesto dell'ombrello. Questa "nuova cucina" non è poi tanto nuova, dal momento che quasi cinquant'anni fa il giornalista Ernesto Mombello, famoso gastronomo, ne enunciava già i princìpi di base: "Non bisogna mangiare, ma assaggiare. Al primo boccone il gusto nuovo vi delizia, al secondo vi appaga, al terzo non è più nuovo e voi vi mettete a chiacchierare con il commensale vicino. Da quel momento in poi ingurgitate senza accorgervene e vi appesantite inutilmente". Tutto logico, razionale. Non ha proprio senso che, quando uscite con gli amici, ritorniate a casa sorridendo, accarezzandovi lo stomaco e dicendo "Ho fatto una mangiata...".