sabato 29 maggio 2010

Heysel

Grande giornalismo l'altro lunedì in tarda serata, a "La storia siamo noi" di Minoli. E' stato mostrato un documentario sulla tragedia dell'Heysel, lo stadio di Bruxelles che vide la morte di 39 tifosi (32 italiani) schiacciati dalla folla messa in fuga dalle violenze dei supporters inglesi. Era la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, nel 1985, il 29 maggio (oggi). Nel documentario, oltre ai ricordi dei superstiti, apparivano immagini girate durante la tragedia: tanto perfette (ed atroci) da sembrare un film. Abbiamo visto i morti, la gente che agonizzava, le ondate di fuggiaschi che si salvavano calpestando i caduti. La frase più amara e più vera l'ha detta un sopravvissuto: "Mentre sentivo che mi schiacciavano, pensavo: ecco, sono venuto fino a Bruxelles a morire per una partita di calcio". Quelle parole mi hanno ricordato un altro lutto calcistico, qui a Genova: la morte di un ragazzo accoltellato al cuore da un tifoso avversario. Anche in quella povera vittima la fine incombente aveva ridimensionato i miti e portato alla ribalta ciò che era importante: mentre entrava in sala operatoria, dalla quale sarebbe uscito cadavere, il ragazzo non inneggiava alla sua squadra, non imprecava contro l'avversario; gridava, disperato, la sola cosa che ormai contava per lui: "Non voglio morire, non voglio morire...".

domenica 23 maggio 2010

Cèlebret

Tutti scatenati sulla prospettiva dell'uscita di Santoro dalle dipendenze della Rai e del suo passaggio al rango di collaboratore. La "sparata" di giovedì sera in apertura di "Anno Zero" non ha chiarito molto. Per ora si sa di sicuro che il giornalista dalle chiome cangianti è disposto a rinunciare al suo "cèlebret" e che la Rai è pronta a fargli ponti d'un oro non solo metaforico. Che cos'è il "celebret"? Ve lo spiego: quando un sacerdote si trova in una diocesi che non è la sua e deve dire Messa, chiede solitamente ospitalità in una chiesa. Lì gli viene chiesto di mostrare il "celebret", un tesserino firmato dal vescovo che attesta la sua abilitazione a celebrare i sacri riti. Se il religioso è sospeso "a divinis" non ha più il tesserino. Ora pare che Santoro si adatti a restituire il suo "celebret" televisivo, che consisteva nell'andare in onda in diretta con scalette e testi decisi da lui. Se la rinuncia avverrà, Santoro, divenendo collaboratore, dovrà prima proporre una serie di produzioni e farsi accettare gli argomenti, poi dovrà far visionare il prodotto registrato (e si sentirà dire qui va bene e qui taglia). Con questi scenari di lavoro e considerando il carattere non facile del personaggio, è quasi ovvio prevedere burrasca fin dal primo taglio. Santoro potrebbe quindi ritornare a stracciarsi le vesti. Tv e giornali non vedono l'ora.

lunedì 17 maggio 2010

Il salto

Com'è ovvio, il Presidente Napolitano legge nelle cerimonie testi preparati dal suo staff e da lui opportunamente ritoccati. In occasione di un recentissimo discorso, per polemizzare con chi sogna la secessione, ha usato un'immagine non molto fortunata, quella del "salto nel buio". Era dal 1946 che non la sentivo, la ripetevano ossessivamente i monarchici per cercare di scongiurare la nascita della Repubblica con il referendum. Quando l'ho riascoltata, ho ripensato a quei giorni lontani, alle roventi polemiche contro il ministro dell'Interno, Romita, accusato d'aver infilato nelle urne un milione di schede contrarie alla permanenza di Casa Savoia. I delusi cantavano "Chiudi gli occhi Romita" sull'aria della popolare canzone dedicata a Rosita. Lui, Romita, se ne infischiava e non badava neppure alle satire sulla sua bassa statura, che, nella città d'origine, Tortona, gli era valsa il soprannome di Romitei (Romitino). Da giovane, il futuro ministro aveva corteggiato invano una sorella di mio padre, Carolina, che poi preferì un cugino, Silvio. Chissà, se la zia avesse accettato di sposare Romitei, avrei avuto un potente protettore, avrei potuto fare carriera a Roma, entrare in politica. Invece sono rimasto qui a centellinarmi le ultime delusioni: pensate un po', non sono neppure entrato nella lista di Anemone.

martedì 11 maggio 2010

L'invito

L'esplosione d'ira che ha travolto i freni di d'Alema a "Ballarò" sembra destinata a fare epoca. Ho già rivisto la registrazione in tre programmi Tv diversi, naturalmente con differenti interpretazioni. E' stata di sicuro un "apax", come dicono i filologi per classificare un'espressione che nei testi antichi s'incontra una sola volta: nessuno - ritengo - oserà ripetere davanti alle telecamere il liberatorio "Vada a farsi fottere" del leader Pd. E' peraltro da mettere in preventivo, in uno dei prossimi dibattiti, il ricorso all'allusione da parte di qualche contendente messo alle strette; a un tipo castigato come Bondi, per esempio, riuscirebbe naturale dire a un contraddittore: "Se permette, le faccio un invito dalemiano". Comunque sia, l'iracondo leader rischia di passare ai posteri portandosi appiccicata addosso quella frasetta. Perderà l'imbarazzante fardello solamente nei testi scolastici: infatti nessun professore del Tremila inviterà gli studenti a ricordare cosa disse D'Alema a Ballarò, per lo stesso motivo per il quale oggi non s'insegna ciò che gridò Cambronne a Waterloo. Il più citato nelle aule future sarà ancora Garibaldi, con il suo telegrafico "Obbedisco". A dire la verità, poco prima era sbottato anche lui come D'Alema, ma fece in tempo a correggersi. Non c'era ancora la diretta Tv.

mercoledì 5 maggio 2010

Coccodrilli

Un medico, conscio dell'imminente fine, ha chiesto di leggere in anticipo il proprio necrologio. Un giornale l'ha accontentato, scegliendo però la forma, meno funebre, di un'intervista in cui il dottore morente (si chiama Godi, ironia dei nomi) ha potuto raccontare tutta la sua esistenza. Di necrologi dedicati a persone viventi erano ben muniti, una volta, gli archivi dei quotidiani: venivano preparati per tempo in previsione di decessi dell'ultima ora o di momentanee assenze dell'"esperto" di questo o quel personaggio. Al "Decimonono" di quarant'anni fa il più accurato nel preparare "anticipi" del genere (si chiamavano, in gergo, "coccodrilli") era il critico d'arte Attilio Podestà: continuammo a pubblicare quei suoi articoli anche dopo la scomparsa dell'estensore. Forse per scaramanzia, il diligente "Tillìn" non aveva commemorato preventivamente il suo fraterno amico Emanuele Rambaldi, ben noto pittore chiavarese. Quando il lutto avvenne, Podestà si sciolse in lacrime e fu per molte ore incapace di mettere mano a un ricordo dell'artista. Io dovevo chiudere la terza pagina e non sapevo come cavarmela. Alla fine dissi a "Tillìn": "Dài, scrivi una lettera al tuo amico, fai conto che sia ancora vivo". L'espediente lo convinse a riprendere la penna, ne uscì una grande pagina di giornalismo.