mercoledì 23 settembre 2009

Carristi

Dolore per i sei morti di Kabul e un amaro ritorno nella memoria. Io l'ho vista in diretta, tanti anni fa, la morte dei militari nei blindati. Ero su una strada che andava al lago di Bolsena, al bivio che porta a un paese chiamato Cellere. Davanti a me procedeva un carro armato leggero, in esercitazione. Il conducente si fidò troppo del bordo della strada, il terrapieno cedette e il carro si capovolse. Quando raggiunsi il punto della disgrazia l'equipaggio stava strisciando fuori da una botola: tutti incolumi, tranne l'uomo in torretta che era rimasto schiacciato: di lui si vedevano solamente le gambe. Forse aveva tentato un balzo in extremis mentre il carro precipitava. Arrivarono gli inutili soccorsi, il povero morto fu recuperato e portato in un piccolo obitorio (mi raccontarono poi che qualcuno, quella notte, gli rubò gli scarponi). Sconvolto, me ne stavo in silenzio a cavallo della moto e pensavo alla mia visita di leva, qualche anno prima: al momento della selezione attitudinale l'ufficiale mi aveva chiesto in quale corpo preferivo essere arruolato. "Nessuno - gli avevo risposto - sono orfano di guerra, non farò il soldato". "La devo assegnare comunque - aveva ribattuto - in caso di conflitto partirà ugualmente. La metto nei carristi, almeno sarà al sicuro dalle pallottole". Oggi carrista significa Afghanistan, autobombe, attaccanti suicidi: chi poteva, allora, immaginare simili scenari?.

giovedì 17 settembre 2009

Mi perplimo

Alla tenera età di settantasei anni ho imparato un nuovo verbo italiano: perplimersi. Pare che il neologismo sia italiano dal momento che l'ha usato l'autore di una lettera pubblicata dal "Secolo XIX". Alla prima lettura mi sono detto "E' il solito refuso di stampa"; poi però ho constatato che nel pur breve testo per altre due volte era stata usata l'espressione "mi perplimo" per dire "mi rammarico, mi lamento". Non è il caso di scandalizzarsi troppo, nella lingua corrente le parole nascono e muoiono in continuazione: fino a un un paio di secoli fa, invece di dire "aurora" la gente preferiva dire "dilùcolo" e il primo che cambiò termine fu sicuramente guardato con stupore e rimproverato. Certo che il "mi perplimo" è venuto alla ribalta in un frangente molto delicato per la nostra lingua: proprio ieri un rappresentante italiano ha fatto un intervento in napoletano nell'aula del parlamento europeo. Nello stesso giorno ho scoperto che persino Gabriele D'Annunzio, il Vate che indossava l'italico idioma come un morbido, aderentissimo guanto, cedeva al dialetto, dal momento che una delle sue leggendarie carte da lettera intestate portava il motto veneziano "Ti con nu, nu con ti". A quel punto mi sono concesso la licenza di esclamare in genovese: "Nu gh'è ciù un dìo de netto!", cioè "Non c'è più un dito di pulito!". Però mi perplimo di essermi lasciato andare.

venerdì 11 settembre 2009

La televisione

Di chi parlare se non di Mike? Quando cominciò "Lascia o raddoppia" nel mio caseggiato c'era un solo televisore, quello della mia dirimpettaia Mercedes, con la quale avevo un rapporto particolare di amicizia: portavo infatti quasi ogni giorno la sua cagna pointer, Clea, a fare grandi corse su per i monti alle spalle della città. Ero quindi invitato d'onore, con madre e sorella, al quiz del giovedì, che, per la verità, non m'interessava gran che. Dopo le prime meraviglie di fronte a concorrenti che sembravano pozzi di scienza, avevo infatti scoperto che per ogni materia c'era un libro che faceva testo in caso di controversia; ne avevo dedotto che le domande venivano tratte logicamente da quel libro e che era quindi sufficiente memorizzare quel volume per essere sicuri di azzeccare le risposte. Scoperto il meccanismo, l'interesse era rimasto quasi totalmente affidato all'originalità dei concorrenti, che non sempre raggiungevano i livelli di simpatia toccati dal "dandy" Marianini, vero mattatore del teleschermo. Finito il quiz, Mercedes avrebbe volentieri spento la Tv per andare a dormire, ma io facevo finta di nulla e dimostravo grande interesse per il telegiornale: sapevo che alla fine avrebbero fatto vedere i gol di una delle più recenti partite di serie A. Quella sì che era una ghiottissima novità, la dimostrazione che la Tv ci avrebbe davvero cambiata la vita.

venerdì 4 settembre 2009

Il Negus

Nel 1970 vissi per un paio di giorni accanto a un grande protagonista della storia mondiale, il Negus Neghesti Ailé Selassié, imperatore d'Etiopia. Lui visitava Santa Margherita Ligure e Genova, io facevo l'inviato al seguito. Comunicavamo tramite i generali della Corte, che parlavano tutti perfettamente l'italiano, essendo ex-graduati del nostro esercito coloniale. Il Negus era già stato in Italia, nel 1924, accolto con tutti gli onori da Mussolini; quel Mussolini che, dodici anni dopo, gli avrebbe scippato il trono e il regno. Nonostante queste fosche vicende, Ailé Selassié dimostrava con ogni parola ed ogni gesto un profondo amore per l'Italia e gli italiani; ammirava il paesaggio e i monumenti, ringraziava chi lo applaudiva, stringeva mani e regalava medagliette; a tutti donava un lampo dolce dello sguardo. Quel segno di mitezza e d'affetto mi ritornò in mente cinque anni dopo, quando appresi con grande dolore che l'Imperatore era stato deposto, imprigionato e strangolato da una fazione dei suoi connazionali. Perché ne riparlo oggi? Perché la peggiore immagine della mia estate è stata quella di Gheddafi (altra vittima del nostro colonialismo) che atterra sul suolo italiano portando con arroganza una fotografia appesa al bavero. Ci mancava il sonoro con la voce del marchese del Grillo: "Io so' io e voi non siete un c...". Come diceva il conte di Buffon, lo stile rivela l'uomo.