venerdì 28 agosto 2009

La terza

Dagnino, anziano usciere del Decimonono, aveva una mano di legno. Con l'altra cercava la sua rivincita di disabile intagliando noci per ricavare graziosi cestini completi di manico, che poi regalava ai giornalisti. Era attento a quanto si diceva nella stanze redazionali e dall'ascolto aveva tratto la convizione che tutte le più importanti notizie facessero capo alla terza pagina, quella letteraria. Non mancava di buoni motivi poiché spesso le polemiche tra colleghi riguardavano "quelli della terza" accusati di fare la bella vita e di guardare dall'alto in basso i cronisti e gli sportivi. Effettivamente, arrivare a scrivere in terza pagina era un traguardo, lo tagliava chi aveva una scrivania nella "stanza del pensiero" e, magari come assegnatario di una rubrica, godeva di una specie di usucapione. Se qualche estraneo giungeva alla meta, era solamente per un ordine perentorio del direttore. Dagnino, ignaro di corsivi e di elzeviri, aveva dunque concluso che la terza pagina era il "non plus ultra" del giornalismo. Così, quando i corridoi si animavano di colpo perché qualcuno annunciava, gridando, l'assassinio di uno statista o l'affondamento di una nave, tra i concitati scambi di idee dei redattori si levava il vocione di Dagnino che esclamava in dialetto: "Questa scì che a l'è bella, a mettemmu in tersa!". Dagnino è passato, ma, nel giornale, la sua frase "storica" è rimasta viva per anni e anni.

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