giovedì 30 luglio 2009

L'abilità

In tempi più brutali li definivano in modo eccessivamente specifico: sordi, muti, zoppi e ciechi. Poi si passò al nome collettivo di handicappati. Seguì un termine più smorzato, disabili, sostituito da un nome incoraggiante, diversamente abili. Il più diversamente abile che mi sia capitato di conoscere era un disoccupato di un paesino viterbese, Cellere. Me lo mandò un malfidato collocatore comunale per rimpinguare un gruppo di disoccupati con i quali stavo mettendo in luce la città etrusco romana di Vulci. Il nuovo arrivato giunse in coppia con un compaesano: erano sempre fianco a fianco, parlottavano in continuazione e picconavano l'interramento in perfetta sincronia. Lui alto, secco e rosso di capelli, l'altro bassotto e moro. Per un po' tutto andò liscio, poi il piccone del rosso sfiorò un polpaccio d'un operaio che stava passando. "Ahò - gridò la mancata vittima - che sei, cecàto?". "Perché, nun lo sapevi?" rispose il rosso. Così scoprii di aver assunto un operaio cieco per ritrovare preziose e sacre vestigia dell'antichità. Che fare, licenziarlo? Preferii incaricarlo di provvedere, con il suo complice, all'approvvigionamento di acqua potabile per il cantiere. Con la botticella se la cavava benissino. Oggi si parla spesso delle pensioni ai finti ciechi, ma un finto vedente è capitato solo a me.

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