lunedì 16 aprile 2012

Formaggio

Se vi dicono di pensare a un posto del tutto pulito e sterilizzato immaginate sicuramente una sala operatoria; io, invece, penso a un caseificio. Porto con me quell'impressione fin da ragazzo, quando mio zio Gino mi caricava sulla canna della bicicletta a motore (il Mosquito) e mi portava a fare il giro dei caseifici più prossimi al paese piacentino dove abitavamo. Era il mestiere di Gino, quello: andare nelle fabbriche del formaggio e del burro a vendere cagli, forme e reti per tirar su dalla vasca d'acciaio quel bianco ben di Dio. Lì tutto si presentava splendente: uno specchio, veniva voglia di togliersi le scarpe. L'odore di disinfettante, poi, sembrava addirittura gradevole. Tutto il contrario della fabbrica dello zucchero, nerastra e appiccicosa. Tra le pesantissime forme di grana scoprii che quel loro aspetto lucido e quei bordi bombati erano frutto di una accurata sbucciatura della superficie, proprio come si fa con una mela. Lo scarto del maquillage, una serie di sottili, gustosissime strisce, veniva donato ai clienti e ai visitatori. Oggi che si dice "regalare è morto e suo figlio sta male", chissà che fine fanno quelle bucce: probabilmente vanno a riempire i sacchetti del grattugiato.

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