lunedì 21 febbraio 2011

Il divano

Negli anni Sessanta, in via XX Settembre, c'era ancora la piccola casa d'aste della signora Vitelli, mia vicina di casa in via Lata. Disperdeva, per lo più, arredamenti che provenivano da alloggi dell'alta borghesia. Io, sempre a caccia di quadretti di pittori liguri, non mancavo una tornata di vendite: quando mi aggiudicavo un lotto, l'anziana signora batteva il martello e, sorridendo, diceva: "Finirà in via Lata!". Capitò in asta un divano di una bellezza clamorosa, decorato a mazzi di fiori su fondo bianco: proveniva dal dismesso corredo di scena del teatro Margherita. Ci presi una cotta e, al momento della gara, alzai la mano. Quasi subito, però, mi resi conto di avere un accanito competitore: se ne stava in fondo alla sala e superava ogni volta la mia offerta. Lo scrutavo con astio e mi dicevo: "E quello da dove spunta? Eppure lo conosco...". Per farla breve, fui costretto ad arrendermi. Il giorno dopo ritornai nel salone delle aste per vedere gli oggetti dell'incanto successivo. In un angolo c'era il divano perduto, imballato e pronto per la spedizione: sopra la iuta avevano incollato un foglio con l'indirizzo: "Maestro Umberto Bindi, Roma". Ecco perché conoscevo l'odiato avversario. Quando, quasi quarant'anni dopo, appresi dalla Tv la morte di Bindi, pensai subito: "Chissà che fine farà il divano...". Cose da maniaci, lo ammetto.

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