domenica 18 dicembre 2011

Miroslao

Il primo clandestino che ho conosciuto si chiamava Miroslao, originario di Tolmino, un paese italiano passato alla Jugoslavia nel '45. Miro era clandestino nel senso che poteva vivere ma non lavorare in Italia: dichiarato apolide (cioè senza patria) doveva campare esclusivamente con il misero sussidio erogato da un ente internazionale. Naturalmente si dava da fare lo stesso, in nero e sotto falso nome. Così ci conoscemmo in una colonia estiva, io assistente dei ragazzi, lui addetto alle pulizie. Lo reincontrai trent'anni dopo, ormai vecchio e mal ridotto: mi raccontò che viveva della carità dei vicini di casa, in un tugurio del centro storico. "E il sussidio?". "Sparito!". Era successo questo: dopo decenni di vita da apolide, Miro, convocato in questura, si era sentito chiedere se avesse prestato servizio nel regio esercito. Alla risposta affermativa, il funzionario aveva esclamato: "Ma allora lei ha diritto alla cittadinanza italiana, facciamo subito la pratica!". Il riconoscimento, arrivato rapidamente, aveva avuto il solo effetto di provocare la revoca del sussidio dovuto agli apolidi. Ed ecco il resto della storia di Miro: ricoverato per gli stenti, il mio amico subì un avveniristico intervento chirurgico di sostituzione aortica. Sospettai che l'avessero usato come cavia umana. Sopravvisse da invalido, ma non per molto.

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