martedì 17 gennaio 2012

Concordia

Al paese di mia madre, Fiorenzuola d'Arda, usano (o usavano) un'espressione piuttosto forte per commentare un accumulo di disgrazie su un unico malcapitato: "Al can rugnùs, ag va adré al muschi": il cane con la rogna è anche tormentato dalle mosche. La frase mi è ritornata in mente quando ho saputo del naufragio all'isola del Giglio: una nuova pagina nera da mettere sul conto dell'"italiano tipico" così come è visto in Europa. Più che indignarmi, il comportamento del comandante della "Concordia" dopo la sciagura mi ha sbalordito, anche se sono ben conscio che è finita l'epoca in cui il capitano considerava un onore irrinunciabile perire con la propria nave. Non era, quello, un uso perduto nella notte dei tempi: negli anni della scuola elementare, a Chiavari, avevo ogni giorno davanti agli occhi un quadretto con la fotografia del tenente di vascello Luigi Risso, medaglia d'argento, affondato con la sua torpediniera nel 1940. Quell'immagine ornava la mia aula perché Risso era il padre del mio compagno di banco, Stefano. Da allora, il mio immaginario considerava tutti i capitani di mare personaggi quasi mitici per il loro senso del dovere. Fino al 13 gennaio, alla vergogna del Giglio.

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