lunedì 18 marzo 2013

Lazagna

Conobbi l'avvocato Giovanni Battista Lazagna nei primi anni Sessanta, quando ancora non era coinvolto nell'avventura guerrigliera di Gian Giacomo Feltrinelli. Già allora, però, manifestava la sindrome della clandestinità, forse ereditata dalla guerra partigiana. Si presentava al Decimonono e chiedeva di me, che facevo il segretario di redazione; gli andavo incontro e lui, circospetto, si metteva un dito sulle labbra e sussurrava: "Vorrei parlare con Cavassa". Veniva accolto a braccia aperte dal direttore, anche lui vecchio partigiano e i loro discorsi non avevano nulla di segreto. Eppure, ogni volta, quell'arrivo da carboneria si ripeteva.  Della stessa mania soffriva Feltrinelli, che si aggirava sull'Appennino Ligure come se fosse sulla Sierra Maestra con Fidel e  Che Guevara. Il mio collega Nelio Ferrando lo incontrò  una volta nella casa di campagna del professor Venturi, marito della scrittrice Salvago Raggi: "A cena - mi raccontò Nelio - fu presentato collettivamente ai commensali come "il signor Osvaldo", ma era evidente che si trattava di Feltrinelli. Lo accompagnava un giovane, entrambi vestivano alla militare. Non disse una parola e se ne andò alla svelta". Nessuno, allora, lo cercava, il suo sogno sembrava un gioco. Quando passò all'azione, perse la vita.

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