lunedì 22 luglio 2013

Cantando

Una volta, passando per strada, si sentiva qualcuno cantare, ora non più. Il mio ricordo più antico di questa bella usanza risale ai primi anni Quaranta, quando il garzone di un negozio veniva nelle nostre scale e intonava "Un'ora sola ti vorrei" sperando d'intenerire una servetta che lavorava al terzo piano. Era una canzone d'amore contrastato ma speranzoso, divenne poi un tormentone antifascista, perché qualcuno immaginò di rivolgersi al Duce, reo dell'entrata in guerra. Ricordo poi i canti pagani e religiosi nei pellegrinaggi alla Guardia e le ottave malandrine dei miei operai sullo scavo archeologico di Vulci. Tutto finì con il karaoke, quando il canto divenne un impegno più che uno svago. Il "Corriere" dell'altro giorno ha citato le compagnie piemontesi che in quaresima andavano a "canté j'euv", a cantare le uova, per farsi offrire la merenda dai contadini. Anche al di qua dell'Appennino c'era un'usanza simile, ma a parti invertite: in Val Polcevera, infatti, erano i contadini ad andare a cantare di villa in villa nel periodo autunnale, per augurare buona fortuna ( con la speranza di una mancia) a chi si apprestava al rientro in città dopo le vacanze. Erano auguri dallo strano nome, "Cantegue". Oggi diremmo "canzoni a chilometri zero".

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